Uno (una) legge questa frase e, se pure non si sente tanto bene, gli viene da piangere: �Villa5 associazione fa parte di quelle pratiche di donne che, misurandosi concretamente con l’economia di beni immateriali e materiali, mette in discussione i modelli culturali e sociali esistenti tentando di generare sperimentazioni trasferibili, creando nuove economie basate sulla cura di s�, dell’ambiente, delle comunit��.
Gli viene da piangere per tanti motivi.
Il primo che la frase, qualsiasi cosa nasconda, � scritta in un italiano cos� brutto e oscuro che l’unica cosa che si riesce a legare alle �sperimentazioni trasferibili� sono i barbecue nel parco, che in effetti, si possono trasferire, non c’entrano tanto con i modelli sociali esistenti quanto con le abitudini dei peruviani e, se uno riesce a vendere le salsicce, creano anche una nuova economia.
Insomma, tra il comunicato stampa e il sito di Approdi 2007 (�un cantiere di lavoro, un work in progress, tra artiste, esperte d’arte, studiose, critiche, operatrici culturali e quante, a vario titolo, sono interessate al mondo dell’arte, ideato e proposto da villa5, Residenza multidisciplinare per l’arte delle donne situata nel Parco della Certosa di Collegno, Torino), mi stavo arrendendo.
In fondo per� � un peccato perch� il programma di Approdi, a cominciare da sabato 27 ottobre � interessante: si va da Pratiche di resistenza in territori di guerra con Faiza Hameed Alarajj (Iraq), Ayan Mohamed Matano e Mariam Yassin Hagi Yussuf (Somalia) a Nuove cittadinanze femminili tra le due sponde del Mediterraneo con Damia Benkhouya (Marocco) e Rachida Hamdi (Torino), fino a Pratiche politiche di frontiera, con Mariam Ikermawi (Palestina) e Ruth El-Raz (Israele).
Questo, in sostanza, era un doppio appello: alle organizzatrici perch� adottino l’italiano, e che sia un italiano accogliente. E a chi si � scoraggiato davanti al percorso di guerra e ai termini da �indiani metropolitani� perch� metta il naso in villa. A tale proposito, mi sembra centratissimo il titolo del libro che vorrei suggerirvi questa volta: Quando abbiamo smesso di pensare? di Irshad Manji (Guanda).
Irshad ce l’ha proprio tutte: � nata in Uganda ma dalla comunit� arabo-musulmana; si dichiara islamica; � femminista ed � lesbica. No, ha un difetto pi� grave: non ha mai rinunciato a pensare. E a porre domande.
Il che ovviamente � molto seccante sia per un padre violento e tradizionalista, sia per il signor Khaki, maestro della madrasa di Richmond, in Canada, dove Irshad � cresciuta, sia per molti gruppi islamici e cristiani fondamentalisti.
Irshad dice cose che a noi sembrano ovvie, tipo: �se il Corano afferma che tutto ci� che Dio crea � eccellente, perch� dovrei vergognarmi di essere come mi ha creata, ovvero omosessuale?�. Oppure, a proposito dell’odio per gli ebrei. �Che cosa fa di noi essere giusti e degli altri semplici razzisti?�. Il problema � che proprio le affermazioni logiche risultano curiosamente blasfeme per i religiosi. Non soltanto islamici.
E qui � il punto: il libro della Manji � un coraggioso atto d’accusa contro l’islamismo intollerante (non tutto, ma purtroppo una fetta importante) e contro fenomeni addirittura surreali come la punizione per �adulterio� delle donne stuprate, in base alla sharia. Ma diventa un atto d’accusa contro tutte le religioni e le ideologie che impongono all’uomo di non pensare e di obbedire senza rilettere.
Il dogma � un virus diffuso.
Che che se ne dica, le uniche armi efficaci per contenerlo, come sostiene Irshad, sono la democrazia occidentale e la cultura del dialogo.