Francesca Violi
Sulla Riva
Elliot Edizioni
Pensa di aver capito male per via dello sventagliare nelle orecchie. Aveva cacciato la testa fuori dal finestrino sperando di snebbiarsi il cervello, ma con la notte così afosa e umida… Si ritrae nell’abitacolo in tempo per sentire Mauro che ripete: «…a secco, merda!».
Allora aveva capito giusto. «Come, a secco?».
«Come: guarda!».
Nicola guarda. Nel buio l’occhio rosso lo fissa dal cruscotto:
«Ma non potevi controllare prima?».
«Oh, ascolta, già ci metto la macchina».
Incassa senza replicare: è vero, lui non ha nemmeno la patente, così hanno dovuto prendere la Uno della madre di Mauro. Il quale ora sferra una manata al volante. Nel bagagliaio il cane si mette a raspare.
«Però che morta di fame, cazzo. Renditi conto, è andata dal benzinaio lunedì, uno dà per scontato che— Ma quanto ci ha fatto, dieci carte? Che pezzente!».
Queste tirate di Mauro contro la madre possono andare avanti a lungo, specie con la spinta del Plegine. Meglio intervenire: «Era già accesa, la spia, quando siamo partiti? O si è accesa adesso».
«Ma che cazzo ne so», un rutto silenzioso gli gonfia le guance.
«È già tanto se vedo la strada».
E in effetti i suoi occhi obliqui sono ridotti a fessure.
Di nuovo si sente grattare dal baule.
Mauro dà finalmente voce alla conclusione che Nicola ha preferito tacere: «Non possiamo portarlo fino ai Fontanassi».
Il progetto era di abbandonare la bestia lontano. Poi sì, qualcuno l’avrebbe trovata e restituita grazie alla medaglietta, o magari sarebbe stata la cagna stessa a tornarsene a casa per conto suo: ad ogni modo ci avrebbe messo un bel po’, e così quella stronza della sua padrona imparava. E quale posto migliore dei Fontanassi, le sorgenti del fiume a una trentina di chilometri da lì? L’idea l’ha folgorato ore prima, da stonato, e immediatamente l’ha colpito per la sua inevitabilità, per la sua poesia, quasi: “il Melemma è un fiume di risorgiva”, te lo insegnano fin dalle elementari, e insieme ti raccontano la leggenda famosa, della contessa egoista che per punizione divina viene inghiottita da una delle polle di risorgiva, e poi risputata fuori trasformata in cagna, e così c’è questa cagna che vaga ululando nella notte… A pennello, proprio. Ma adesso non se ne farà niente. E Nicola si rende conto che, al posto del disappunto che dovrebbe provare, dentro di lui si va srotolando un tiepido tentacolo di sollievo.
“E se chi trova questo bell’animale di razza decide di tenerselo e tanti saluti? E se cercando la strada di casa la bestia viene investita da una macchina e crepa lungo un fosso?”. Il tentacolo striscia a colpo sicuro fino al mucchio di e se che Nicola aveva fatto di tutto per ignorare, e ci si arrotola mollemente intorno. Il sollievo del vigliacco, del rinunciatario.
Si costringe a protestare: «Ma siamo appena partiti. Se la lasciamo qua, prima di domattina è già tornata a casa».
«Non so cosa dirti, se la broda non c’è, non c’è, e—». Mauro non finisce la frase: sterza a sinistra così bruscamente che manda Nicola a sbattere contro la portiera. Stanno imboccando lo sterrato tra il campo di mais e la vecchia cava, quello che porta al fiume.
«Dove vai!».
«Uno, devo pisciare. Due, intanto decidiamo cosa fare. Hai ancora del fumo, no?».
Più che una presenza il Melemma è un’assenza. Se la notte è mancanza di luce e colore, il nastro nero sprofondato tra le rive e la vegetazione è una fascia di notte condensata, ancora più buia e liscia e uniforme. L’odore è il misto familiare di fango e alghe marce, con una punta di chimico, la viscera aperta della terra lasciata a fermentare nel caldo estivo.
Nicola strina il tanfo aspirando un ultimo tiro lungo e bruciante, lascia cadere la canna ormai fumata fino al filtro, la schiaccia sotto la suola di gomma e cerca di abbandonarsi all’effetto.
Ecco, rilassarsi, la luna bassa tra i rami, le stelle, la cantilena soporifera dei grilli…
Ma no, non c’è verso di ignorare i suoni provenienti dall’auto, neanche il cane gli stesse uggiolando proprio dentro la testa, grattando disperato le pareti della sua scatola cranica. Come fa invece Mauro? Non una piega, a giudicare da come se ne sta immobile, faccia al fiume, accosciato come un cazzo di santone, no, come un rospo gigante, proprio in cima alla collinetta di detriti. Macerie scaricate abusivamente da qualche costruttore, un mucchio che rovina in giù, all’acqua.
Dal bagagliaio sale un guaito prolungato. Mauro, sordo fino a quel momento ai lamenti della bestia, di
colpo scatta in piedi.
«Oh, non mi piscerà mica nel baule!». Salta giù dal mucchio, raggiunge Nicola e l’auto: «Già mi tocca girare con ’sto cesso di macchina, ci manca solo la puzza di cane. Dobbiamo tirarlo fuori».
Sta già aprendo il bagagliaio. Mauro è così, un momento è calmo, poi dal niente gli monta una qualche smania, una frenesia, una paranoia, e in men che non si dica ne è tutto preso e non si dà più pace. Questo già in condizioni normali, senza contare il mischione di roba che ha in corpo stasera. Tenendola per il collare fa scendere la cagna, una setter dal pelo fluente che la notte rende color inchiostro. La bestia ringhia e si divincola come per mordere, ma indossa una museruola e Mauro ha braccia forti: «Dai, aiutami, prendi la corda!».
«Sì. Arrivo».
La cagna uggiola.
«Buona, Daka, buona» sussurra Nicola, mentre assicura al collare un capo del pezzo di corda che hanno portato. Sente la morbida frangia della coda sfiorargli i polpacci nudi. «E adesso?».
«La soluzione» Mauro indica in direzione del fiume con un ampio gesto teatrale «ce l’hai davanti! Ci penserà la corrente a portarla lontano».
«Cioè, vuoi farla entrare nell’acqua? Ma ci mette niente a nuotare fino a riva».
«Non se sta su una zattera!». Mauro gira intorno al cumulo di detriti. Si china, e in due strattoni ne estrae una cosa allungata e piatta. «Lo mettiamo su questa!». Con un gesto deciso conficca la cosa, una tavola di legno, tra i frantumi, in modo che stia in piedi come un’enorme lapide. Nicola si avvicina con Daka al guinzaglio. La tavola, di quelle da ponteggi, è alta circa quanto lui, smangiata agli angoli, e ha una forma irregolare, di scheggia gigante.
«Ce la leghiamo, capito?» esclama Mauro, gesticolando. «Così non salta giù». I suoi occhi obliqui brillano di esaltazione e i capelli, ormai privi di gel, sono un’aureola scura ma raggiante. «Prima o poi finirà a riva e qualcuno la trova».
«Mah, non so» bofonchia Nicola. A questo punto preferirebbe lasciare libero il cane e tanti saluti. Però deve riconoscere per l’ennesima volta che Mauro ha una marcia in più. Trova il modo di cavarsela
nelle situazioni più assurde, lui, non si lascia mettere a terra da difficoltà da niente.
Ormai è scatenato: «Surf! Anzi, crociera: roba da ricchi!». Solleva l’asse a due mani, sopra la testa, e la fa volare giù come niente. Ha una forza quasi da uomo. Nicola è più alto, ma ha ancora un fisico da ragazzino, tutto ginocchia e gomiti e pomo d’Adamo. La tavola atterra con uno schiaffo bagnato sul fango, pochi metri più sotto, e Mauro sparisce a sua volta nel buio. Nicola lo sente raggiungere la riva in pochi balzi sicuri, possenti, e scende a sua volta, slittando con cautela lungo la china friabile dei detriti. Si aiuta con una mano mentre con l’altra conduce la cagna, che si impunta sulle zampe, un po’ tirandola e un po’ sussurrandole rassicurazioni: «Stai tranquilla, Daka. Ti fai una gita in barca».
Sulla riva il terreno è cedevole. L’odore del fiume si sente in fondo al naso e alla gola.
«Dai, Greco, andiamo!», col piglio di un carpentiere volenteroso Mauro solleva la tavola e la trasporta fino all’acqua, ma una volta lì si blocca. «Però come facciamo a…?».
Il problema è evidente: l’asse è priva di fori o appigli, e la corda non è abbastanza lunga per passarcela intorno e annodarla come si deve.
Borbottando, Mauro torna alle macerie. Lo si sente rovistare e frugare e dopo poco è di ritorno, portando qualcosa tra le braccia. «Ecco».
Una grossa conchiglia pallida atterra con un tonfo ai piedi di Nicola. Un lavandino. Vecchio e sbreccato, privo di rubinetto. Mauro si sfrega le mani una con l’altra per ripulirle. «Leghiamo il cane al lavandino. Poi li mettiamo tutti e due sulla tavola. Appena la zattera sarà un po’ lontana da riva, il cane non avrà più il coraggio di saltare giù. Aspetterà di toccare terra. Dai, al lavoro».
La tavola di legno è in posizione: parallela alla riva, lambita dall’acqua. Con un grugnito Mauro ci sistema sopra il lavandino, il bordo rivolto in giù, come una cupola. Hanno passato la corda attraverso
il foro di scarico, Daka è legata all’altro capo. In mezzo non resta che un braccio di corda libera, così mentre Mauro, chino sulla zattera, sposta la zavorra qua e là in cerca dell’assetto giusto, dietro di lui Nicola fa in modo che Daka assecondi queste manovre.
«Fatto» dichiara finalmente Mauro, rimanendo chino in avanti per tenere la tavola in posizione: «Vai, Greco, falla salire. Ah, no, aspetta, cazzo, la museruola! Levagliela, devo ridarla a mio cugino».
Nicola libera il muso di Daka e lei abbaia forte, due volte, con tono (gli sembra) di accusa.
«Oh, ti dai una mossa? Mi viene l’ernia, qua».
E lui ci prova: la tira per il collare, la spinge dalla groppa. Daka però si impunta, si divincola.
«Dai, allora!».
«Eh, dai, dai: è una parola!», la voce gli esce stridula. La verità è che il terrore dell’animale gli sta entrando sotto la pelle, gli sta stringendo lo stomaco. «Se magari ti sposti un po’ e mi fai passare».
Dopo altri grugniti e guaiti e tentativi, Daka è a bordo, le zampe divaricate e tremanti.
«Vai!». Mauro ruota la prua per offrire la tavola alla corrente, ma quasi subito l’animale prende ad agitarsi. La tavola balla e si inclina.
Cane e lavello scivolano giù, nell’acqua bassa. Ritentano.
La teoria sembrava semplice, ma nella pratica è tutto un agitarsi di zampe pelose, piedi, corda, braccia: e ora ogni componente è fradicia o scivolosa di fango. Mauro, esasperato dal fallimento della sua idea e dal fatto che si sta inzaccherando scarpe e indumenti, continua a imprecare.
Nicola respira con la bocca: l’odore combinato di cane bagnato e fiume è da star male. «Magari possiamo liberarlo qui, e chi s’è visto s’è visto».
«Scherzi?», la voce di Mauro stride di disprezzo incredulo. «Sei tu che hai avuto l’idea! Sei tu che mi hai chiesto di prendere la macchina. Mi fai fare tutto ’sto casino e adesso vuoi mollare così?».
Nicola geme. «No, hai ragione, okay. Hai ragione».
Stringe le labbra, moltiplica gli sforzi.
Poi non capisce esattamente cosa succede. Forse, si dirà in seguito, Mauro ha pestato una zampa a Daka, perché lei guaisce e poi ringhia. Dopo, lo strillo di Mauro, lo scatto scomposto all’indietro, la corda che si tende, il ciaf pesante del culo nella melma. La cagna, in piedi nell’acqua bassa, gli latra contro furiosa, trattenuta a malapena dal lavandino che è scivolato per l’ennesima volta giù dalla tavola. Questa è schizzata via per il contraccolpo e si sta allontanando nella corrente.
Nicola esita, fa qualche passo avanti per raggiungerla: i piedi sprofondano nel fondale molle e si ritrova nell’acqua fino alle ginocchia. Scacciando il timore si allunga ad afferrare l’asse e la traina in secca, mentre Daka continua ad abbaiare contro Mauro, che si sta rialzando.
«Mi ha morso». Si stringe la mano destra con l’altra. «Mi ha morso!».
Lo ripete prima con sorpresa, poi con risentimento, quindi come accusa contro Nicola: «Mi ha morso, cazzo! E guarda qua, guarda!», ruota appena il bacino, esponendo il fondoschiena dei jeans imbrattato da un’enorme chiazza scura: «Sembra che mi sono cagato addosso!».
E senza dire altro, con un unico movimento fluido si china e un attimo dopo sta ruotando su se stesso, come un lanciatore di martello.
Nicola spalanca la bocca.
Gli rimarrà a lungo nelle orecchie questa sequenza: un ansito come si sente fare dai tennisti seguito dallo schiocco bagnato della corda che si tende; il brevissimo guaito acuto; quindi il tonfo, composto in verità da due suoni diversi appena sfalsati, lo schiaffo fragoroso della ceramica a cui si sovrappone un tuffo più lieve e morbido.
Estratto da “Sulla riva” di Francesca Violi, Elliot edizioni 2020.
Pubblicato in accordo con United Stories Agency – Roma
© Lit edizioni S.a.s. di Pietro D’Amore. Per gentile concessione.