“Favola per rinnegati”, Mondadori, inizia con 10 secondi di follia: un ragazzino armato con un kalashnikov spara sulla folla nel cuore di Milano e poi muore scappando con l’auto. Il ragazzo in auto con lui rimane ferito in modo grave.
Il primo pensiero di tutti è che sia un attentato di matrice islamica, un nuovo Bataclan e i media si scatenano, scendono in campo anche i servizi segreti, ma le cose non sempre sono come appaiono…
A indagare ritroviamo il commissario Carrera, già apparso nei tuoi precedenti libri: quarantenne, veste in modo ricercato, ma che per indagare è abituato a rimestare nei bassifondi e non disdegna l’uso di metodi poco ortodossi, perché a volte i principi sono un lusso troppo costoso. Tabagista e bevitore, ha dei fantasmi che lo tormentano, quelli casi irrisolti: Dice: Io sono i miei fantasmi. Come è nato e come è cambiato nel corso dei tre libri?
Diciamo che nel corso dei tre libri Rudi Carrera è cambiato. È cresciuto con me. Innanzitutto, da un punto di vista anagrafico. Ne La sentenza della polvere Carrera aveva 37 anni, in Favola per rinnegati ne ha 42. In questi cinque anni gli è successo di tutto, oggi lo troviamo più disilluso ma anche più consapevole del mondo e dei limiti che lui stesso ha – cosa che, comunque, non gli impedisce di oltrepassarli scientemente. È sempre irrequieto, ma ha imparato a controllare la rabbia, anche se solo fino a un certo punto. Rimane questa sua tendenza a cercare continuamente qualcosa e a dare tutto quello che ha sul lavoro, non curandosi delle conseguenze personali. La polizia lo divora, e lui non fa niente per evitarlo. La sua vita privata è un disastro, e questo per colpa del lavoro. Il lavoro è ciò che gli fa perdere tutto, ma al contempo è l’unica cosa che gli garantisce un posto nel mondo.
Dici che è un uomo che ha vinto le battaglie ma ha perso la guerra.
È uno che non si risparmia, che sbaglia in continuazione, spesso ferendo chi gli sta vicino, eppure non si trattiene. Ogni volta che risolve un caso, finisce sempre per perdere qualcos’altro.
Cosa è la sua Grande Bestia?
Difficile da spiegare. Ho lasciato il concetto un po’ vago apposta, in modo che il lettore possa farsi un’idea sua. Diciamo che potrebbe essere un demone che lo divora da dentro e che, grazie al sostegno del suo amico barbone, Raimondo, è riuscito a relegare in un cassetto chiuso a chiave nel fondo della sua anima. Senza la Grande Bestia, Rudi sta un po’ meglio. Però, a un certo punto della storia, ne ha bisogno. Ha bisogno della parte peggiore di sé, e la libera. Finendone sovrastato.
Esistono davvero i luoghi che descrivi in cui va a spaccare tutto per sfogarsi?
Le rage room, le stanze della rabbia. Fanno parte del processo di maturazione di Carrera. Anziché lanciarsi in risse da bar, adesso va in uno di questi posti a spaccare tutto con una mazza chiodata. Una specie di terapia che ha trovato per domare la Grande Bestia. È una cosa che in Italia è arrivata da qualche anno, c’è un posto vicino a Milano.
Carrera ha un disperato bisogno di felicità ma non sa dove trovarla.
Come molti di noi, del resto. Rudi Carrera vive nel mondo, attraverso di lui cerco di raccontare l’oggi. Favola per rinnegati è anche, e forse soprattutto, un romanzo sulla solitudine.
Di un altro personaggio centrale, l’Arciere, ex militare e agente undercover, dici: «La guerra è finita ma nessuno glielo ha detto».
Robin è l’altra storia di questo romanzo. La sua vicenda e quella di Carrera procedono di pari passo. Robin Rossi, detto l’Arciere, è una leggenda (caduta) nel mondo degli agenti sotto copertura. L’ultima missione, qualche anno prima, è finita in tragedia, e il suo cervello ha “flippato”. Ha perso tutto, lavoro, famiglia, tutto. Adesso vive ai margini della società, ha problemi di droga, è un uomo allo sbando a cui interessa soltanto vendicarsi di chi lo ha fregato.
Descrivi Carrera e l’Arciere come due schegge impazzite che hanno perso tutto e che si muovono come duri in un mondo spietato. È l’unico modo per portare a casa i risultati.
La diversità di Carrera e dell’Arciere sta proprio nella loro differente consapevolezza. Carrera sa qual è il limite, e lo oltrepassa deliberatamente. L’Arciere, al contrario, non ha nessuna prospettiva del domani, vive a breve termine, e questo lo rende pericoloso. L’incontro tra due uomini così è esplosivo.
Ma tutti i personaggi sono un po’ incattiviti…
È una storia di rinnegati, questa. Di sconfitti. I personaggi si muovono in un mondo in cui il cinismo sembra la cifra dell’esistenza. Sembrano dire «questo è il nostro mondo; voi, i buoni, restatene fuori.»
Chi sono i rinnegati e qual è la loro favola?
Il titolo è l’estratto di un dialogo tra Carrera e uno dei due ragazzini della strage. La favola è quella che si raccontano gli Incel, ma anche tutti i personaggi, per giustificare la loro condizione.
Nel libro si parla del fenomeno INCEL, appunto. Ci dici qualcosa a riguardo? (gente accomunata da depressione, odio e rabbia nei confronti soprattutto delle donne)
Si tratta di una subcultura nata sul web. Sono i ragazzini che fanno le stragi nelle scuole, per intenderci. Hanno un loro vocabolario, parole in codice. Odiano le donne perché non riescono ad avere rapporti con loro. La loro mentalità deviata, però, li spinge a essere frustrati a un livello ancora superiore, perché vorrebbero le donne che vedono in tv, sui social, nelle pubblicità… Spesso gli Incel hanno delle patologie non diagnosticate quali ansia, depressione, in certi casi autismo. Questa miscela, nelle menti più fragili e associata alla facilità di acquistare armi che c’è in molti stati americani, talvolta produce eventi drammatici. In Italia non ci sono mai state stragi Incel, anche se il fenomeno esiste ma al momento è trattato più come una cosa di folklore.
C’è a proposito dei ragazzi Incel una breve riflessione sui genitori che non sanno nulla dei figli.
Il cinema e la televisione ne parlano da tempo, anche se non sempre in maniera efficace. Restiamo alla cronaca: ragazzine che si vendono per comprarsi oggetti griffati, adolescenti dipendenti da sostanze. Oggi la vita è frenetica, i genitori lavorano molto e spesso per quattro soldi, e Internet garantisce a tutti la possibilità di accedere a contenuti e merci che un tempo avevano bisogno di mediazioni. Pensiamo al dark web, che è in realtà il 90% di Internet. I ragazzi, nonostante le iperconnessioni, sono molto più soli di un tempo. Più insicuri. Il filtro di un pc o di un telefonino, la perenne necessità della performance richiesta dai social, sta privando i ragazzi della bellezza delle emozioni reali. Anche prendere un rifiuto da una ragazza è diverso se ti capita di persona o via Instagram. Oggi c’è il ghosting. C’è uno scarto tecnologico e generazionale abissale, oggi, e credo che i nostri ragazzi ne stiano pagando le conseguenze.
Un altro personaggio è un sedicente professore di seduzione che tiene corsi online, esistono veramente?
Esistono. Basta cliccare su YouTube, o su Google. Ne escono a decine.
Quanto ti sono stati di ispirazione di poliziotteschi per la figura di Carrera e dei suoi colleghi? A un certo punto inserisci anche il nome di un personaggio di Milano Calibro 9.
Ugo Piazza, indimenticabile personaggio di Milano Calibro 9, interpretato magistralmente da Gastone Moschin nel capolavoro di Fernando Di Leo. Citazione esplicita. Il clima che ho voluto ricostruire è un po’ quello, seppur attualizzato. Per quanto mi riguarda, è da lì che nasce tutto.
Ci sono anche molti riferimenti ai western. Parli di poliziotti «cowboy di serie b», dici che «Milano era Tombstone, Arizona», di «sfide all’ Ok Corral»…
Sono appassionato di cinema e letteratura western. Trovo che il noir abbia una parte delle sue radici proprio nel western. Oggi ci sono autori come Taylor Sheridan, regista e sceneggiatore americano, che stanno ridando grandissima dignità al genere con quello che viene chiamato western contemporaneo. In qualche modo, anche se non in misura eccessiva, ho provato a riprendere alcuni di quegli stilemi.
Carrera ha un amico, Raimondo, ex ingegnere barbone per scelta con cui si confida. Raimondo a un certo punto dice: se leggessi i romanzi russi, la smetteresti di credere alla bontà del lieto fine.
Pensiamo al finale di Delitto e Castigo, uno dei più belli della letteratura mondiale. Raskol’nikov riesce a trovare la pace solo quando viene spedito in Siberia per scontare la sua pena. Non proprio un lieto fine. Eppure…
Hai uno sguardo spietato sul mondo del media: avvoltoi affamati non di verità ma di un qualsiasi colpevole.
Ricordo con orrore il turismo macabro davanti alle case di Cogne, Avetrana o Garlasco. Delitti famosi in cui un’estenuante copertura mediatica ha scatenato ampi dibattiti. Ospiti in studio nei talk-show serali, colpevolisti contro innocentisti, professori. Sono comparsi perfino i plastici delle abitazioni.
Milano è centrale nel libro: Carrera ama la parte romana della città, ne ha un bisogno quasi fisico, come delle sue passeggiate notturne. La Milano dei gialli/noir ha tante sfaccettature, qual è la tua?
L’orrore patinato. Alberto Genovese, nel giro di una certa Milano, era dipinto come uno “giusto”, un figo. Voli privati e ville con piscina. Invece casa sua era un ricettacolo di finti amici scrocconi che lo titillavano solo per avere droga e donne facili. Poi è venuto tutto a galla e c’è stata la corsa a far finta che nessuno sapesse come funzionano certi ambienti. Patetico.
A un certo punto dici che a Milano per i delinquenti è facile passare inosservati…
Non vedo il mio vicino di casa da sei mesi. So che sta bene, però.
Citi anche I ragazzi del massacro di Scerbanenco. Quanto è ancora attuale la sua Milano?
Sono cambiati i tempi. Milano, la sua anima, l’ha persa ormai da un po’. Quello che non è cambiato, però, è l’abisso in cui certe anime sono capaci di perdersi. A quello non credo ci sia rimedio.
Foto di @Patrick Franceschet
MilanoNera ringrazia Alessandro Bongiorni per la disponibilità.