[Cominciamo oggi la pubblicazione di un saggio di Enrico Luceri che ci accompagner per tre domeniche, buona lettura]
Trovo che il thrilling uno dei modi pi sfrenati di fare il cinema, uno dei generi che permettono all’autore di far volare in sala, sulla testa degli spettatori, per molti minuti, grandi vele di irrazionale e di delirio.Il thrilling contribuisce a far vacillare solide convinzioni e tranquillit, quieti modi di vivere e banali e false sicurezze.
Sono parole di Dario Argento, estratte dalla prefazione al libro Profondo Thrilling, edito da Sonzogno nel 1975. In poco pi di duecento pagine, lo scrittore Nanni Balestrini aveva riletto le sceneggiature dei primi tre film del regista (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio), elaborandole in forma di racconto lungo. Singolare ed interessante esperimento, perch, come precisava lo stesso Argento nell’introduzione, i miei film nascono per essere rappresentati e non per essere letti. Nascono per immagini e non per concatenazioni di storie.
Una fonte autorevole, forse la pi qualificata, espone un tema particolarmente sentito da chi ama il genere thrilling, sia sullo schermo che sulla carta stampata: quali sono le similitudini e quali le differenze, sia tecniche che di sostanza, da tener presente nello sviluppo di una trama. La risposta sembra scontata: dipende dal mezzo che abbiamo scelto, cio le immagini o la parola scritta, ma in effetti le considerazioni sono ben pi articolate. Per prima cosa, ci domandiamo: cosa vogliamo ottenere? E qui, dobbiamo subito precisare di che genere sar la nostra storia. Nel corso del tempo l’aggettivo thrilling ha subito quasi una mutazione genetica, nel senso che ha cambiato pi volte pelle, restando per sempre s stesso, nel senso che oggi tale pu essere una storia di fantascienza, o d’avventura, addirittura anche una commedia. Insomma, qualsiasi trama in cui un particolare coinvolgimento emotivo dello spettatore/lettore sia tale da inchiodarlo alla sedia, magari facendolo sobbalzare per un effetto sonoro o trattenere il fiato quando sta per voltare la pagina e non sa cosa lo attenda. Perch il coinvolgimento emotivo davvero particolare, e riguarda tutti, senza eccezione, anche e soprattutto chi lo nega: la paura. Paura di un aggressore, dell’ignoto, del buio in fondo ad un corridoio, dei propri ricordi, del passato e del futuro. La paura l’abbiamo provata tutti, chi pi e chi meno, e non possiamo scordarla, anche se ogni volta sembra lasciarci un sapore diverso in bocca. La sappiamo riconoscere, ormai, perch si fa annunciare, a volte, da sintomi inquietanti, che sullo schermo sono musiche, effetti sonori, espressioni dipinte sui volti di coloro che credevamo di conoscere, ed all’improvviso ci appaiono diversi, e minacciosi. Sulla carta sono descrizioni angosciose, una tela che scende lentamente ed avvolge, con parole volutamente calibrate, dove la vera abilit dello scrittore consiste nell’agganciare l’attenzione del lettore e costringerlo a voltare ancora una pagina, anche se non vuole. Una paura che sullo schermo si assottiglia fino a diventare un filo rosso sangue, lo stesso che sembra unire fra loro due mani: quelle che infilano lentamente un paio di guanti di pelle prima di afferrare un coltello (L’uccello dalle piume di cristallo), o scattano foto compromettente nel buio del palco di un teatro deserto (Quattro mosche di velluto grigio), o impugnano il pennello che fissa sulla tela l’ultimo rantolo di un moribondo (La casa dalle finestre che ridono), o infine spingono il tasto di Play del registratore e le note della Messa da Requiem di Verdi si spandono fra le tombe etrusche di Cerveteri (L’etrusco uccide ancora).
Un momento, forse ci siamo spinti troppo in l, oltre quel confine esile che separa l’ansia dalla paura, dopo il quale c’ solo l’angoscia, cos impalpabile che quasi non ci accorgiamo di aver gi oltrepassato la soglia del delirio. Cosa spinge Monica Ranieri ad impugnare quel pugnale, Nina ad afferrare la macchina fotografica, Buono Legnani a lasciare sulla tela pennellate dense come grumi di terrore o il giovane Samarakis a ricreare con le note del Dies Irae l’attimo che scaten il suo trauma infantile? E’ la paura, certo, ma non quella artificiale dello spettatore, bens quella vera, che il protagonista ha provato davvero, tanti anni prima, e adesso tornata ad insidiare un equilibrio faticosamente raggiunto. La paura avvolta nelle pieghe di un trauma lontano che sembrava scomparso ed era solo addormentato, ma ora qui, e pretende giustizia, comunque sia ed a qualsiasi costo. La paura, un insieme di sensazioni che si accavallano freneticamente, sull’onda della sovrapposizione di immagini cruente, spesso montate in modo spiazzante per mezzo di evoluzioni della macchina da presa consentite da una tecnologia sempre pi evoluta, ritmate da un commento sonoro e musicale che spesso finisce per diventare protagonista assoluto della scena. Un elettrocardiogramma rappresenterebbe la reazione dello spettatore come una serie di picchi verso l’alto che si susseguono, sempre pi frequenti, senza soluzione di continuit, intervallati da una sequenza di stati di calma pi o meno fittizia, in attesa dell’inevitabile colpo di scena. Un serie di battiti cardiaci che aumentino fino allo spasimo, ritornando subito dopo ad una frequenza normale, per poi accelerare nuovamente, e cos via.
Sulla carta, l’impresa appare pi complicata. Un conto infierire, si fa per dire, sui sensi dello spettatore, martellando l’udito e la vista con una raffica di fotogrammi e musica, un altro instillare nel lettore, pagina dopo pagina, l’attesa di un evento ineluttabile ma non per questo meno angosciante. E soprattutto calamitare l’immaginazione di chi legge, lasciandola libera di dare corpo alla storia, per quanto dettagliate siano le descrizioni degli ambienti, dei personaggi con i loro comportamenti, e delle atmosfere. Ecco quindi che l’evoluzione della trama, rappresentata dal pennino dell’elettrocardiografo, una linea dall’andamento costante, una crescita inevitabile verso quell’epilogo che non riusciamo ad immaginare ma sar senz’altro il luogo geometrico in cui si scioglier il mistero ed attraverso una violenta catarsi si torner allo stato iniziale di (apparente) serenit.
C’, al di l di sottili disquisizioni tecniche, una prova empirica per misurare la distanza che separa lo scopo, cio la creazione della suspense a supporto di una trama efficace, dalle possibilit offerte dal mezzo usato, carta o pellicola. Basta leggere la trasposizione letteraria di un film thrilling di grande impatto visivo: estraniandoci dalle sensazioni vissute durante la proiezione, concentrati solo sulla parola scritta, ci accorgiamo che l’effetto della suspense molto ridotto, in alcuni casi addirittura inesistente. Proprio perch le azioni descritte nascono per essere rappresentate con immagini e commento sonoro e non per parole filtrate dall’immaginazione. E’ pi facile tradurre un romanzo in un buon soggetto cinematografico che non viceversa, con le opportune modifiche di adattamento dell’opera al grande schermo.
Alfred Hitchcock, ad esempio, era solito trovare un incentivo alle sue intuizioni artistiche dalla lettura di romanzi, su cui metteva all’opera, in un secondo tempo, sceneggiatori di sua fiducia, piegando i canoni letterari, o adattandoli, se vogliamo, alle sue esigenze cinematografiche. Cos fece, per La finestra sul cortile (di Cornell Woolrich, esponente massimo del gotico americano) o Psyco (di Robert Bloch) o ancora per Gli uccelli (di Daphne Du Maurier). In questi casi, si pu tranquillamente definire capolavori sia le opere letterarie che quelle cinematografiche. Francois Truffaut, non a caso ammiratore e studioso della filmografia hitchcockiana, come testimonia il loro lungo dialogo divenuto un libro di culto (La conversazione ininterrotta), firm un film come La sposa in nero (The bride wore black, nell’originale di William Irish, pseudonimo di Cornell Woolrich) che, anche grazie alla superlativa interpretazione di Jeanne Moreau, rappresenta una fusione quasi perfetta delle angosciose atmosfere romanzesche riflesse nel volto ambiguo della protagonista della pellicola.