È appena uscito un libro importante, Pentiti di niente (Stampa Alternativa), di Antonella Beccaria, giornalista tra le più preparate, attenta indagatrice dei tanti misteri che tuttora costellano la storia recente del nostro Paese. Il libro, il cui sottotitolo non a caso recita “Il sequestro Saronio, la banda Fioroni e le menzogne di un presunto collaboratore di giustizia”, ricostruisce una vicenda complessa, sia sotto il profilo meramente ricostruttivo, che per le implicazioni che ha comportato in campi delicati e discussi, quali la gestione dei pentiti e, tema se possibile anche più spinoso, i rapporti tra potere giudiziario, politico e lotta al terrorismo. Per l’occasione, Milano Nera ha a sua volta indagato sul making of del libro e sulle motivazioni che hanno spinto la sua autrice a scriverlo. Per farlo, ci siamo avvalsi del nostro strumento poliziesco, l’interrogatorio, anzi l’intervista.
Il lavoro di preparazione che si intuisce dietro la tua opera è imponente: quanto tempo ti ha richiesto l’intero lavoro?
Il progetto ha beneficiato di testi e documenti studiati prima di iniziare a raccontare questa vicenda. Una volta avuto però il materiale giudiziario direi che il tutto ha richiesto un anno circa: il lavoro principale è stato ricostruire le diverse versioni che vengono rese via via nel tempo dalle persone coinvolte nel sequestro e nell’omicidio di Carlo Saronio e individuare i contatti interni ed esterni.
Il libro è percorso da una tensione da romanzo hard-boiled: ho la sensazione che la storia del “mentitore costituzionale” Carlo Fioroni ti abbia davvero preso…
Di certo mi ha preso molto la figura di Carlo Saronio, la vittima: aveva ventisei anni, era nel pieno del suo vigore intellettuale e voleva contribuire a qualcosa che andasse oltre le sue ricerche in ambito scientifico. Di qui prima l’attività di volontariato, condotta a fine degli anni Sessanta nei quartieri milanesi più degradati, e poi l’impegno politico. Un impegno che, pur tra le sue contraddizioni, era genuino. Invece viene trasformato da alcuni suoi finti amici in un sistema per ricavare denaro e il giovane viene ucciso dall’imperizia di persone che si improvvisano sequestratori. Inoltre la sua vicenda diventa, anche dopo l’arresto dei suoi aguzzini, motivo per speculare: prima sul ritrovamento delle sue spoglie (tentativo che fallisce) e poi per ottenere enormi sconti di pena. In questo caso il tentativo riuscirà. Infine, alla luce di ciò che snoccioleranno Carlo Fioroni e Carlo Casirati, i due sedicenti pentiti responsabili della fine di Saronio, il nome dell’ingegnere milanese diventa per lo più una sigla per ricordare una vicenda giudiziaria infinita, e dunque spesso non si saprà nemmeno più esattamente chi fosse Carlo Saronio. Raccontare la sua vicenda vuole restituire “tridimensionalità” alla sua figura.
Il cosiddetto “professorino” Fioroni tenne in scacco la magistratura per anni: fu davvero così scaltro, o c’è dell’altro?
Credo che Fioroni avesse capito in pieno gli aspetti più premianti della neonata legislazione sulla dissociazione dalla lotta armata e sul pentitismo e ne abbia approfittato per quanto più poteva. Il suo scopo lo ha raggiunto raccontando ciò che gli inquirenti volevano sentirsi dire. Quando si tratterà di dimostrare i fatti che Fioroni narra, tutto il castello accusatorio si ridurrà drasticamente fino quasi a scomparire, in alcuni casi. Ma intanto Fioroni era stato scarcerato e aveva preso il volo andando a vivere in Francia. Le parti più ambigue riguardano proprio il periodo del suo soggiorno oltralpe, con un passaporto regolare e senza che mai fosse disturbato mentre in Italia era in corso il processo 7 aprile. Malgrado le istituzioni abbiano sostenuto di voler fare chiarezza su quel periodo, questa chiarezza è sempre mancata.
Secondo te Fioroni si è mai pentito sul serio?
No, non credo, per quanto dicevo prima. La vicenda processuale di Fioroni, dei suoi complici e delle persone accusate da loro più o meno ingiustamente denota calcoli tesi a garantire prima di tutto la salvaguardia personale. Se in alcuni casi il ricorso a collaboratori di giustizia è stato determinante per il buon esito di indagini in ambito di terrorismo e mafia, per quanto riguarda il “pentimento” degli assassini di Saronio è stato solo strumentale.
Il sequestro, culminato nell’omicidio, di Carlo Saronio, è stato davvero un crimine a sfondo politico?
Il sequestro e l’uccisione di Saronio sono stati dettati da ragioni pecuniarie e la vicinanza del giovane ingegnere milanese ad ambienti della sinistra extraparlamentare hanno solo facilitato gli assassini nell’individuarlo come vittima: Fioroni lo conosceva, conosceva dettagli riservati della sua vita (e ciò gli consentirà di fornire le informazioni richieste dalla famiglia dopo il rapimento) e conosceva il suo stato patrimoniale. Dunque Saronio diventava la preda più facilmente agguantabile. E il tornaconto personale, come già detto, caratterizzerà anche la successiva condotta dei responsabili.
In diversi momenti della sua vita, da latitante o pseudo tale, Fioroni ha goduto di aiuti e protezioni esterne: credi ci sia stata sempre trasparenza in queste operazioni?
No, trasparenza non c’è stata. Fioroni, quando scompare in Francia, non è più un latitante, ma rimane un personaggio importante da sentire durante la fasi della vicenda 7 aprile. Che appoggi istituzionali ce li abbia avuti nello scomparire lo dicono i fatti, come per esempio quelli legati alla concessione del suo già citato passaporto. C’è poi il fatto che per anni verrà cercato da organi di polizia senza risultati, mentre lui vive senza particolari cautele in una cittadina francese facendo l’insegnante. Su tutto ciò c’è stato un gran baccano istituzionale, ma nessuna risposta chiara.
Riusciremo mai a capire, a tanti anni dalle prime stagioni della lotta armata, quali siano stati i veri legami tra terrorismo e criminalità comune?
L’esistenza di legami è acclarata: per esempio il “comune” Carlo Casirati aveva avuto contatti con il Mar (movimento di azione rivoluzionaria) di Carlo Fumagalli che a sua volta ha una storia politica molto opaca alle spalle. Altro esempio: rapporti con la destra eversiva ce li ebbe il boss Francis Turatello così come la banda della Magliana e diverse altre realtà delinquenziali. Si discute ancora oggi dei rapporti intessuti poi tra le realtà politiche terroristiche e la criminalità – sia comune che organizzata – in un’ottica di strategie condivise e collaborazioni nel raggiungimento di scopi comuni, ma c’è ancora molto da scavare per mettere tutto il contesto a fuoco. Inoltre la triangolazione che deve andare messa a punto negli anni deve tenere conto anche delle sponde con le realtà politiche istituzionali.