Tutto il noir che si possa immaginare, fuoriesce come cenere dai crateri dell’Etna. Una storia lugubre, ambientata su un’isola posta di fronte ad un’altra isola, più grande, la Sicilia, mai nominata.
Il commissario di polizia, Anastasio Ventura, chiuso e tenebroso, ha scelto di aspettare la pensione proprio su questa tranquilla isoletta ai piedi di un vulcano. Nel suo commissariato, come nella più accreditata tradizione camilleriana, ruotano diversi personaggi rocamboleschi contribuendo al variopinto palcoscenico umano, che si avvicenda in questo bel romanzo.
L’appuntato Maria Lo Faro, detta Isola, proprio per il suo essere unica, con la sua lingua stramba e il suo filosofeggiare continuo, introduce il commissario Ventura, forestiero, nei modi di pensare e di dire dell’isola, prova a spiegargli con una grinta e una vivacità eccezionale una lingua, il siciliano, “che solo a pronunciarla impari la vita”.
Il commissario Ventura è un appassionato e avido lettore e nel suo spoglio alloggio sopra il commissariato non ha altro che libri, Maria invece è una coltissima cinefila, al cui culto la introdusse sua madre, la quale in una dimensione in cui il tempo è dilatato guardava e commentava con la figlia una miriade di pellicole cinematografiche.
Con l’aiuto di Maria e col suo fiuto più che sottile, aiutato dalla solitudine e dalla concentrazione, il commissario Ventura si immerge in una storia viscida e putrescente dove il delitto appare solo alla fine, ambientata in una villa solitaria, che sembrava disabitata, benché curatissima, dove vive una donna strana, non bella ma dallo sguardo fiero, e dove al buio si vede meglio. Il commissario vi si dovette recare, perché erano state udite nella notte urla raccapriccianti e ci volle andare da solo, in quel buio che buio non era, perché la luce è come l’acqua, si infila dappertutto.
Dalla centrale operativa arriva una telefonata al commissariato per informarli che era stato ricoverato un ferito, in prognosi riservata, che quando si è ripreso un minimo ha chiesto di parlare solo col commissario Ventura e solo con lui.
Nel frattempo si susseguono giornate di quotidiana monotonia nel commissariato che servono a Maria a spiegare al commissario che loro sono una razza che si sono mescolati con tutti, un popolo eterogeneo, sono parto di madre buttana, non sono pari come i calzini, lui non li può capire, anche se tanti scrittori hanno provato a descriverli, ma loro sono uno, nessuno, centomila.
E continuano anche le visite al commissariato della Signora Guglielmino che racconta la sua vita e parla di amore come qualcosa che ci rompe e spesso non ci ripara. Lei non ha rotto niente, la villa è rimasta come gliel’hanno lasciata, le cose sono invecchiate con lei, dentro si è rotta ma fuori è rimasta intera.
Marilina Giaquinta con questo suo romanzo d’esordio, Non rompere niente, da catanese e dirigente di Polizia in quiescenza, ha preferito tramite i dialoghi tra i personaggi mettere in luce una lingua ricca di contaminazioni e metafore piuttosto che dedicarsi alla trama poliziesca, che langue un po’ nella prima parte, si allenta e fa perdere il filo al lettore. Comunque il finale è da brivido e non manca di risvolti sordidi e truculenti, assolutamente da leggere!
Non rompere niente – Marilina Giaquinta
Valeria Arancio