Il noir è maschile? È una sensazione che da qualche tempo indugia tra le pagine dei romanzi. La donna che fuma con il suo fare sensuale, la prostituta che si trova dietro l’angolo – quasi fosse la vedetta del quartiere -, o la tenera e innocente vittima che sta lì in attesa del suo carnefice. La gatta morta, la femme fatale, la sfortunata anima bella e l’agnellino, queste per lungo tempo sono state le donne del noir. Forse qualcuno ha descritto anche delle anime nere e delle arrampicatrici sociali, ma quasi nessuno le ha utilizzate come protagoniste del suo romanzo.
Raramente le donne in questo genere di romanzi hanno avuto il controllo del proprio destino, anzi alla fin fine hanno sempre in qualche modo ceduto il passo al mascalzone di turno. Non che fossero delle anime pure, le più belle descrizioni di André Héléna (uno dei principi del noir francese) sono riservate alle puttane di periferia.
Oggi si passa da un estremo all’opposto. Le figure sono mutate, forse però non si sono veramente evolute. Le femmine nei romanzi polizieschi e nei noir non hanno ancora trovato un loro spazio, diciamo che è in atto un work in progress. Le donne noir stanno cercando il loro posto in questo mondo.
Non si tratta di veterofemminismo, né tanto meno di quote rosa. Solo che continuare a relegare i personaggi femminili nei ruoli di moglie, madre, vittima o complice passiva non ha più senso. E con ciò non si vuole ventilare l’ipotesi di una Lisbeth Salander in salsa mediterranea (lì siamo nel mondo dell’irreale).
Giorgia Cantini la protagonista dei romanzi di Grazia Verasani è stata colei che ha spinto questa riflessione sul mondo del noir e sul suo rapporto con la donna autrice/personaggio.
C’è un problema di genere nel noir? Nella doppia accezione sia rispetto ad una marginalizzazione della maggior parte di autrici donna che rispetto ai personaggi nei romanzi. Com’è il mondo del noir per un’autrice?
Quando uscì il primo romanzo con Giorgia, “Quo vadis, baby?”, nel 2004, erano poche le autrici di genere, e erano perlopiù confinate in una nicchia, insomma poco lette, poco riconosciute. Come ho già detto, l’Italia è un paese con molti preconcetti, ma non dimentichiamoci che in Francia anche Fred Vargas scelse un nom del plum maschile per risultare più credibile. Ricordo la mia felicità di veder spuntare altre autrici pronte a seguire il mio esempio. A mettere le mani, con risultati interessanti, nella materia nera. Oggi seguo con piacere due autrici come Giorgia Lepore e Paola Barbato. Ma ce ne sono anche altre. Il problema è che non sono molto lette. Scontano il pregiudizio di lettori che preferiscono l’autrice americana, l’anatomopatologa o la giornalista di nera, all’estero con grande successo. Qui funziona soprattutto un giallo “commedia”, da prima serata di Rai 1, per intenderci. La leggerezza (seppur di classe) dei romanzi di Margherita Oggero, o quelli di Alessia Gazzola. Ma il noir in senso stretto, come fu per la serie tratta da “Quo vadis, baby?”, con elementi sociali, un’investigatrice tosta, irregolare, anticonformista, e temi scottanti, fu considerata di nicchia, quasi avanti sui tempi. Forse adesso funzionerebbe di più, ma non ne sono sicura.
Perché hai reso Giorgia Cantini protagonista? Lo rifaresti?
Lei non è una super donna eppure è estremamente credibile, anche nelle sue sfumature più oscure.
Nel 2004 fu proprio questa la novità di un personaggio del genere, era una donna come tante, non una wonder woman, non una detective all’americana, non faceva jogging all’alba in riva all’oceano, fumava e beveva senza particolari eccessi, non ci teneva a essere in forma, non era bella e non aveva un rapporto facile con gli uomini. Una donna d’oggi, insomma, lunatica, tenera, scomoda, impegnativa. Ma mai caricaturale, mai estrema. Poteva raccontarla così solo una donna? Credo di sì.
La femme fatale è ancora la protagonista del genere?
La mia idea è che, nonostante le dovute eccezioni e un certo miglioramento rispetto all’uso di stereotipi passati, non siamo ancora vicini a personaggi femminili credibili o del tutto convincenti. Le donne dell’hard boyled americano (narrativa che ha fulgidi esempi come Chandler, Ellroy, Hammet), o quelle di giallisti italiani come Olivieri, Scerbanenco, Fruttero e Lucentini, erano rappresentative di un’epoca e di un immaginario culturale precisi, e caratterizzate quasi sempre solo in un modo, cioè, per definirle con un aggettivo: monocromatiche.
Non solo i romanzi, ma anche nelle altre forme di racconto poliziesco…
In film come “La fiamma del peccato” o “Il postino suona sempre due volte”, solo per citare qualche esempio, c’è la donna fatale, pericolosa, intrigante, bellissima o fascinosa, a volte sinonimo di prostituta; in altri casi troviamo la classica brava, quasi sempre vittima, o ancora la Dalia nera, l’attrice partita dalla provincia americana in cerca di gloria. Sono quasi sempre donne che subiscono o che tramano alle spalle e di cui non ci si può fidare.
Dalla sua risposta però ci aspettiamo anche delle eccezioni.
Dovessi fare due esempi contrari, direi Patricia Highsmith e Stephen King. Le donne della Highsmith non mancano di sfumature e sottigliezze, e la Annie di “Misery deve morire” di King è un bell’esempio di originalità ossessiva.
All’estero e tra i suoi connazionali?
Nei contemporanei italiani vedo ancora, in alcuni casi, dei cliché che mi fanno storcere il naso, perché le donne oggi sono diverse, e andrebbero descritte con maggiore realismo. Ritengo che ci sia una difficoltà, anche fuori dalla narrativa di genere, di raccontare le donne senza schematizzarle o approfondendone la complessità, come se rappresentassero, per l’immaginario maschile, un eterno rebus da risolvere, un mistero romantico. È una tendenza che avverto soprattutto nei giallisti della mia generazione o in quelle precedenti.
Quindi non bisogna disperare…
Le nuove generazioni mi sembrano più libere, più allineate ai tempi correnti. Ma a essere sincera solo nei gialli nordici, al momento, trovo personaggi femminili azzeccati. In Italia mi è capitato di avvertire a volte un sessismo quasi inconsapevole.
Comunque, il pregiudizio che il noir sia un genere prettamente maschile, è duro a morire, e dipende anche dal fatto che solo da poco tempo le autrici hanno cominciato a occuparsi, nei loro romanzi, di politica, del sociale, di problemi e temi considerati da sempre patrimonio maschile.
Come una autocensura delle stesse autrici?
Sì, in molti si sono rifugiati nel giallo rosa dove alle autrici è permesso, quasi fosse di loro esclusiva competenza, parlare di delitti con una scrittura leggera o spiritosa. Per fortuna oggi ci sono scrittrici che passano da un genere all’altro fregandosene delle etichette, penso a Margaret Atwood, che scrive anche noir, ma è soprattutto libera di estendersi in più territori grazie al suo stile letterario magistrale. A conferma che il noir ormai, e aggiungo per fortuna, non ha più confini marcati. Io stessa, nel mio piccolo, non scrivo solo noir, e ho sempre combattuto contro le etichette.
Come accennava prima questa rigidità e scarsa considerazione sono però molto nostrane.
Mi preme anche dire che lo snobismo pregiudiziale che hanno alcuni rispetto alle autrici di noir è un fenomeno molto italiano, come se si tendesse a considerare le donne più brave nel campo dei sentimenti o della psicologia, e in questo modo le si escludesse dal gioco. Invece, altrove, c’era un signore di nome Wittgenstein che adorava leggere Agatha Christie. A riprova che il talento non ha sesso, né rigide specializzazioni.
Milanonera ringrazia Grazia Verasani per la disponibilità