Non che si giudichi un libro dalla copertina. Però, senza cadere nei luoghi comuni, un buon biglietto da visita rappresenta un piacere per gli occhi. Ed è esattamente il caso de La regola dell’ortica (Feltrinelli, luglio 2025), il romanzo d’esordio della giornalista e grafologa forense Nunzia Scalzo. I colori e i disegni attirano l’attenzione, così come la ricostruzione del salotto in stile anni Sessanta dove la giovane Norma Speranza si è sparata con una carabina. L’arredamento rétro, il telefono a rotella sporco di sangue, tutto fa pensare a un’immagine curata nei particolari. E infatti, leggere questo romanzo è come comporre un puzzle, dove i vari protagonisti svelano segreti a modo loro, coinvolgendo determinati altri soggetti. Uno svolgimento che tanto piaceva ad Agatha Christie, in cui il lettore sa più di chi indaga. Chi legge infatti ha a disposizione tutte le testimonianze, comprese di pettegolezzi. Si dovrà perciò recuperare e sul finale avverrà un vero e proprio miracolo.
La Sicilia è la protagonista assoluta dell’opera, in particolare una Catania che viene descritta attraverso gli anni che separano il fatto di sangue dai giorni nostri. Una città dove vive e lavora l’autrice, che quindi lei conosce bene. Questa è la prima indagine della grafologa Bea Navarra, consulente in tribunale alla stessa stregua di Nunzia Scalzo. Quando si domina la professione, che qui è pure originale, e si conoscono usi e costumi del luogo, esce un romanzo credibile. I dialoghi risultano naturali ed ironici, ricorrendo sovente al vernacolo.
Bea Navarra è sulla cinquantina, divorziata, con un figlio grande che studia all’estero. Vive da sola a Catania, ma è tutta dedita al suo lavoro di grafologa forense e sa godersi i momenti di libertà, che trascorre in modo significativo con amici veri e buon cibo. Anche qualche buon bicchiere di vino, che non guasta! Per cui, mentre è intenta a risolvere una perizia calligrafica che ruota attorno a una famiglia e a una faccenda di eredità dei giorni nostri, ecco che le arriva la richiesta di analizzare un vecchio biglietto datato 1965, lasciato dalla già citata Norma Speranza, quale testimonianza del suo suicidio. A incaricare Bea sarà proprio la nipote della morta, figlia della ormai attempata Violetta, a sua volta sorella devota della cara estinta, catapultandola in una sorta di cold case pruriginoso. La scena quindi si affollerà di persone che hanno vissuto la tragedia, parenti e amici, che porteranno la loro testimonianza. Perché c’è chi crede che la frase: “Tutto è distrutto e io mi ammazzo”, non sia stata scritta da Norma Speranza, bensì dal suo assassino. Inoltre, minuta com’era la donna, come ha fatto a spararsi alla tempia con una carabina?
L’originalità della storia sta proprio nel modo in cui vengono riportati i pensieri degli attori. Alcuni sono morti, dato il tempo trascorso, oppure attualmente vittime di demenza senile. Quindi prevarranno le lettere, i ricordi, le trasposizioni coi passaparola dell’epoca.
Tutto inizia quando Norma Speranza si spara e il marito, il medico Andrea Longo, la porta all’ospedale ormai agonizzante, insieme al portinaio dello stabile. Attorno alla figura di questo coniuge, si riuniranno le perplessità.
Bea si rende presto conto dell’importanza di allargare la visuale, quasi si avesse a disposizione un grandangolo. Non fidarsi delle congetture, ma analizzare la realtà dei fatti.
“È la regola dell’ortica: fino a quando stringi forte le foglie, non avverti il dolore delle punture, lo senti solo quando lasci la presa. Significa che se ti ostini a guardare da troppo vicino, non capisci il senso delle cose.”
Un romanzo che aiuta a credere nella forza della scrittura, come segno distintivo che possiede ciascuno di noi. A Bea e Domenico, quest’ultimo acuto giornalista e suo collaboratore fidato, spetta il compito di risolvere un mistero lungo sessant’anni. Dove ognuno custodisce dei piccoli e grandi segreti e, come nella realtà, non è mai del tutto innocente.