Mariolino Migliaccio non è un investigatore privato, o come lo definirebbero in certi ambienti “fottignin scotizzoso”, ovvero un ficcanaso sporcaccione. Lo fa per necessità, ovviamente senza licenza e senza un ufficio. Ha trentatré anni, l’età di Cristo quando fu crocifisso: troppi, direte voi, per uno che non è ancora riuscito a farsi davvero strada nella vita, sopravvivendo solo grazie alla sua abilità nel muoversi con disinvoltura tra i torbidi fondali genovesi.
Vive ancora in una stanzetta di una pensione con bagno in comune, in vico degli Stoppieri — proprio sopra la camera della fascinosa antillana Fatima, miraggio dei suoi sensi ma, in realtà, escort al servizio del pappone (e fidanzato) Solinas. Orfano, ha studiato regolarmente fino alla licenza media, quando sua madre Wanda — una prostituta — era ancora viva. Ma quindici anni prima, mentre Mariolino frequentava l’ultimo anno di liceo, lei fu brutalmente assassinata da un cliente sconosciuto. Da allora ha dovuto arrangiarsi, spesso saltando i pasti, e non ha mai accettato che la polizia non sia riuscita a trovare l’assassino. Ancora oggi vive con l’ossessione di scoprire chi lo ha reso orfano.
Per “ricevere i clienti” utilizza come ufficio un tavolo d’angolo in un’osteria di vico San Sepolcro, un altro carruggio. La sua è una sorta di agenzia abusiva per indagini non autorizzate, a parcella esentasse pagata in contanti. L’ultimo strano incarico — offertogli furbescamente da Luigi il Vecchio, temuto gangster e primo, forse nostalgico, protettore della madre — gli ha fruttato diecimila euro e alcuni consigli di vita. Così ha potuto aprire un conto in banca, rimpolpare il misero guardaroba fatto di stracci, pagare la retta della pensione, mangiare decentemente e togliersi qualche sfizio.
Come, per esempio, lavorare gratis per aiutare qualcuno.
Ed è proprio così che, quando Milca — la diciassettenne albanese che Mariolino ha salvato da un bordello di lusso, affidandola alle cure di Soledad, materna e anziana ex prostituta nonché vecchia amica di sua madre — gli chiede di aiutare una sua cugina, lui accetta di incontrarla. La bella venticinquenne Alina Mirescu è rimasta vedova da un mese e ha un figlio di tre anni, Michelino. Alina vuole fare luce sulla morte del marito Anton. Nonostante fosse un uomo violento e infedele, non crede che si sia suicidato gettandosi dalla Torre del Forte Tenaglia a Sampierdarena.
Anton è stato ritrovato con la colonna vertebrale spezzata e una siringa nel braccio, piena di droga sufficiente a uccidere un cavallo. Ma molte cose non tornano. La versione ufficiale parla di overdose, ma Anton era sì un ubriacone, però completamente refrattario all’eroina. Inoltre, sulla scena mancava l’accendino indispensabile per preparare la dose, e sul corpo non c’erano altri segni di iniezioni precedenti. Secondo Alina, è stato intrappolato e ucciso con un’unica dose letale.
Mariolino non può, né vuole, tirarsi indietro. Riprende così i contatti con Tonino Spaggiari, ispettore della Squadra Mobile, romanaccio di Pietralata, irascibile, sovrappeso, scontroso e con una predilezione per lo Scotch. Il loro è un vecchio rapporto: non si piacciono granché, ma si rispettano e finiranno per collaborare.
La scena del crimine risulta chiaramente inquinata, e dietro quella morte si apre presto una fitta cortina di silenzi. Emergono speculazioni edilizie, lavoro nero e sottopagato. C’è davvero qualcosa di oscuro nella morte di Anton Mirescu. Per scoprirlo, bisognerà frugare nel mondo sporco e pericoloso dei subappalti e dello sfruttamento. Bisognerà scavare, indagare, cercare la verità anche quando fa male. Perché si tratta di un ambiente che non tollera intrusioni e reagisce con minacce concrete.
Ma non è tutto. In questo intrico di indagini, grazie alle intuizioni e ai suggerimenti del suo amico violinista zingaro, il fatato Anghel, riemerge anche una labile traccia: quella di una possibile, sconosciuta sorella di sua madre. Per Mariolino, che non ha mai smesso di fare i conti con la ferita della sua perdita, questo diventa il filo rosso evidente della nuova serie.
Dopo il successo del primo romanzo (premiato con lo Scerbanenco), Bruno Morchio torna con un protagonista umanissimo, inquieto, fuori dal comune. Mariolino ha avuto un’infanzia opaca e una giovinezza infelice, ma da sua madre Wanda ha ereditato gusti raffinati: conosce il cinema americano degli anni ’50, ha un’infarinatura di jazz, ama Beethoven, le canzoni di Paolo Conte e i grandi autori russi e francesi dell’Ottocento, senza dimenticare Montale e Simenon.
Tra carruggi e quartieri popolari della Superba, dentro e fuori dal magnifico centro storico genovese, Morchio costruisce un noir popolato da un’umanità autentica, in un mondo variegato fatto di lingue, culture ed etnie miscelate con intelligenza narrativa. Con questo secondo romanzo, l’autore colpisce ancora nel segno.