La donna che uccideva le fate – Gesuino Nemus



Gesuino Némus
La donna che uccideva le fate
Elliot
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Scanzonato e irriverente, il romanzo di Gesuino Némus scorre veloce come una bottiglia di Cannonau, rendendo la lettura sempre piacevole e mai banale.

Il caso che il maresciallo Ettore Tigàssu, di stanza in un microscopico paesino sperduto nell’Ogliastra-Telévras- affiancato dal brigadiere Bizer, deve affrontare, all’apparenza potrebbe sembrare un banale omicidio collegato al furto di bestiame, ai canoni d’affittanza, all’utilizzo di terre destinate a pascolo…a tutto quello che rientra nelle abitudine ataviche proprie della terra sarda. In realtà non tutto è come appare ma, soprattutto, a questo caso, recente e bollente, si collega un cold case che si perde nella notte dei tempi e ci riporta a riti, rituali, magie e superstizioni antiche. A nulla serve che il procuratore dottor Arcànu- nomen-omen– lo emargini e lo tenga lontano dalle indagini: il nostro Tigàssu riesce comunque a non farsi sfuggire questa ghiotta occasione di arrivare a scoprire quanto, troppo a lungo, è rimasto celato.

Ma veniamo ai fatti. Gioacchino Dicciòsu, che tradotto in italiano significa Fortunoso- altro nomen omen a suo tempo noto per aver animato e sostenuto le lotte dei pastori sardi per la difesa del prezzo del latte, negli ultimi mesi sembra disilluso, frastornato. Uno che come lui, ha partecipato a rivolte ed è stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, è improvvisamente diventato strano: non piace sentirlo discutere in pubblico sulla sorte e sulla fortuna che regolano la vita degli uomini e delle bestie. Ma trovarlo morto, ucciso in maniera atroce, getta la comunità nello scompiglio: a conferma del fatto che la sorte ti prende alle spalle, fu trovato con la schiena spappolata da una scarica di pallettoni.

La vicende permette a Gesuino Némus di puntare la macchina da presa su quel variopinto mondo che anima Telévras, creando spassosi quadretti di vita paesana, conditi da perle di sarda saggezza. Tra i personaggi che danno vita alle pagine: Gigetto Lollòi, soprannominato il Protagora di Telévras per la sua abitudine a parlare in maniera esagerata e a fare sofismi; Peppinu Pisilentzia, uomo che prova un tedio cosmico; Gonario Manizàre, affarista privo di scrupoli; Samuele, proprietario del Bar Cannonau & Basta e sua moglie Bonaria; il brigadiere Bizer, nato italiano e non austriaco per 500 metri; il servo pastore bulgaro, Dimitar, di professione ovchar, pecoraio, che si ostina a chiamare Tigàssu mareschiallo, con grande fastidio del maresciallo stesso.

Gioacchino Dicciòsu, morto in maniera violenta e misteriosa, ha un solo parente che gli sopravvive, una parente, a voler essere precisi: Elvira Dicciòsu, in arte Dulchèsa Durèsa, sua sorella. È lei, la donna che uccide le fate e spaventa chiunque osi avvicinarla: l’unica persona di cui si fida è Bonaria, la moglie di Samuele, proprietario del bar Cannonau & Basta. Si tratta di una persona ormai in là con gli anni…ma si sa che nell’Ogliastra, il concetto di anzianità e vecchiaia è estremamente relativo. Vive lontano dal paese, si nutre di quanto spontaneamente la natura le offre, è stata a lungo in manicomio, ha avuto una figlia misteriosamente scomparsa durante un’alluvione e, cosa assai sorprendente, durante due episodi di morte e risveglio post mortem ha indicato i colpevoli di due omicidi che erano rimasti irrisolti.

Un’altra persona si aggiunge a questa compagnia, già abbastanza composita e folklorica: il professor dottor Marco Vantini, uno dei più acclamati docenti di Psicologia clinica, prima all’Università di Milano e poi in quella di Lugano, poeta dilettante, autore di un libro di poesie rigorosamente scritte a mano. L’unico particolare? Le 75 pagine di cui è composto il libro…sono assolutamente bianche: fronte/ retro bianche O meglio:75 pagine bianche, tutte con un titolo diverso: 75 titoli diversi ma nessuna riga, nessuna strofa, nessuna rima: niente di niente, tant’è che la moglie, di fronte a tale scoperta, non può che dire: mio marito è diventato matto.

Vantini, animato da strani desideri -fare della Sardegna il cantone marittimo della Svizzera, acquistare una casa abbandonata a un euro per andarci a vivere, trovare l’ispirazione che nelle sue terre gli manca…- si ritrova casualmente a Telévras, dove non ci sono case da acquistare a un euro ma dove l’intera comunità lo adotta. In più, Bonaria gli propone varie case in affitto semi-perenne, l’ultima della quale è quella che apparteneva a un paesano ormai fuggito da tempo che, guarda caso, si chiama Gesuino Némus.

Qui potremmo aprire una parentesi per lanciarci in interpretazione metaletteraria, come l’autore sembrerebbe suggerire, con fare tra l’ironico e l’ammiccante. Perché, se lo volete sapere, Gesuino Némus è a sua volta uno scrittore che ha scritto libri che contengono solo pagine bianche, rilegate in copertine di colori diversi. L’intero paese ce l’ha con lui, perché aveva promesso di parlare di loro e di renderli famosi ma poi…è sparito.

Così, Bonaria cede al dottor Vantini la casa di Gesuino…facendogli giurare che mai e poi mai avrebbe aperto i libri da lui lasciati sugli scaffali protetti da un cordone rosso, per evitare curiosità o manomissioni.

Alla fine, sarà Tigàssu a mettere mano a uno dei libri, anzi al libro più importante per loro, solo dopo aver scoperto quello che c’era da scoprire, sull’uccisione di Gioacchino e sulla storia della sorella, Dulchèsa Durèsa e della bambina scomparsa durante l’alluvione.

Un’ultima perla: Dulchèsa Durèsa significa Dolcezza e Durezza…un sicomoro, come dice il brigadiere Bizer.

Sicomoro? Sicuro? Chiede Tigàssu curioso. Ma non è una pianta?

Al che Bizer, dopo aver cercato su Internet: ah non è sicomoro ma ossimoro: quando due parole hanno significati contrastanti.

Insomma: una lettura divertente e mai scontata…veloce come una bevuta al bar tra amici.

Michela Vittorio

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