‘La bambola cieca’ è il secondo romanzo scritto da Scerbanenco con protagonista il timido e ipersensibile Arthur Jelling, addetto all’Ufficio Archivio Criminale presso la polizia di Boston. Uscito nel 1941 dopo il successo di pubblico ottenuto con ‘Sei giorni di preavviso’, La nave di Teseo oggi ripubblica questo gioiello della narrativa poliziesca, corredato da una bella prefazione della figlia Cecilia.
Sono gli anni in cui il regime fascista disdegna la letteratura gialla, tacciata di essere disfattista e troppo incline a svelare i limiti del sistema giudiziario, sicché Scerbanenco sceglie di delocalizzare la storia, per così dire, dandole un’ambientazione americana, più asettica.
Arthur Jelling ci è presentato dall’autore con poche precise pennellate di gran classe: “era un uomo che aveva quarant’anni, aveva studiato medicina fino a venticinque anni, s’era sposato a ventiquattro, e altro non aveva fatto di più importante, se non scoprire la trama segreta di alcuni delitti famosi”.
Questa volta si trova coinvolto in un caso che vede minacciato il noto chirurgo Augusto Linden, che ha accettato di operare il miliardario Alberto Déravans, cui intende restituire la vista grazie a una tecnica all’avanguardia. Pochi giorni prima dell’intervento uno sconosciuto avvicina il medico e gli intima di non ridare la vista a Déravans, e quindi di astenersi dall’operarlo, pena la morte. La minaccia viene denunciata alla polizia e il capitano Sunder, il superiore di Jelling, gli assegna il caso con questa motivazione: “Voi siete ormai un poliziotto specializzato nella scoperta di delitti che non sono ancora avvenuti. Gli altri lavorano sul morto, sul colpo di pistola già sparato. Voi lavorate … sul vivo che ancora devono uccidere, sul colpo ancora da tirare…”.
La minaccia, nel giorno previsto per l’intervento, si avvera: il dottor Linden viene freddato poco prima di raggiungere la clinica oculistica. Si apre così una serrata indagine che coinvolge tutte le persone dell’entourage della famiglia Déravans nonché il personale medico della clinica. La vicenda si tinge sempre più di tinte fosche quando pare affiancarsi anche una pista magico esoterica, legata al ritrovamento, nel corso delle perquisizioni di rito, di una bambola nascosta nel cassetto della medicheria con gli occhi strappati e di un libro di pratiche occultistiche.
Jelling procede per cerchi concentrici, arrivando a escludere di volta in volta i possibili indiziati in un crescendo che non può che concludersi con l’individuazione del colpevole.
E’ un investigatore sui generis il nostro Jelling, deduttivo, attento al particolare, cervellotico, costruisce una fitta rete di ipotesi fondate sia sul suo istinto sia sui rilievi scientifici, senza dimenticare di tracciare il profilo psicologico che cerca di delineare con riferimento non solo all’ipotetico autore del crimine, ma anche alla vittima e all’ambiente che la circonda e in cui matura l’intento criminoso. Non è un poliziotto coi muscoli – tant’è che il suo superiore volentieri lo esenta dalla vista dei cadaveri (“non voglio viole mammole, io, in certi frangenti, rispose irritato il capitano Sunder“) – ma non manca di forza e determinazione:
“così sensitivo com’era, nel momento del pericolo diveniva impassibile come un buon giocatore di poker che ha una scala reale in mano”
e ancora
“Jelling si metteva in testa un’idea e seguiva quell’idea. Si trattava quasi sempre di un’idea non molto normale, di una traccia che non sembrava una traccia”.
Il linguaggio è deliziosamente rétro, con l’uso dei nomi italianizzati e il ricorso a forme espressive elaborate e proprie dell’epoca, che offrono al lettore uno scorcio dell’America degli anni Quaranta vivido quasi quanto una pellicola cinematografica in bianco e nero.
Le opinioni che l’autore attribuisce al protagonista – invece – non sono affatto superate o stantie:
“Gangsters! Verrà il giorno in cui saremo tutti gangster, tanto è comodo e semplice! Un’arma, anche scarica, un po’ di improntitudine, e la gente paga, paga, paga, continua a pagare fino all’ultimo centesimo, pur di vivere come delle talpe nelle tane, tranquilli…!”
Emerge prepotente l’uomo e l’intellettuale Scerbanenco nei dialoghi e nelle riflessioni del protagonista del romanzo. E’ chiara la critica alle teorie che tentano di minimizzare la responsabilità del criminale, attribuendo sic et simpliciter le condotte devianti alla spinta di un inconscio malato. Il delitto andrebbe pagato con la ‘giusta pena’ e non ci dovrebbe essere spazio per addurre esimenti puramente giuridiche:
“troppi avvocati riescono a salvare i loro clienti dalla sedia con la scusa della seminfermità mentale…“, fa dire a Tommaso Berra, professore in psicopatologia criminale, voce narrante e alter ego di Jelling.
Forte è la critica per il ricorso a quei tecnicismi del diritto che – abilmente manipolati – hanno il solo obiettivo di evitare la galera anche a chi abbia scientemente deciso di allontanarsi dalle regole della civile convivenza.
E’ uno Scerbanenco fermo e un po’ censorio nei toni, attento al generale e al particolare: per un verso istintivamente proteso al rispetto di ideali di un’etica universale, per altro verso conscio dei limiti delle regole del diritto e incline a non sottovalutare l’aspetto umano delle vicende giudiziarie che narra.
La stessa Cecilia Scerbanenco, nella prefazione, ci riferisce dell’interesse del padre per la psichiatria, la neurologia e la criminologia, e della curiosità che l’Autore nutre per i lati oscuri dell’essere umano e per il protendersi istintivo dell’individuo talvolta al bene, talaltra al male, che né la filosofia né la scienza medica sono in grado di spiegare completamente.
Il libro in una frase
“Chissà che cosa c’è nel cuore degli uomini. Di fuori sembrano una cosa, e di dentro, Dio solo sa che cosa sono”