Da pochi giorni in libreria con il suo nuovo La memoria del lago, Sonzogno, Rosa Teruzzi ha cortesemente accettato di rispondere a qualche nostra domanda.
Ciao, Rosa e grazie per il tempo che ci dedichi. Ti confesso che aspettavo la nuova avventura con trepidazione, ormai le Miss Marple del Giambellino sono come delle amiche, non si vede l’ora di rivederle, o meglio di rileggerle.
Ci hai abituato a personaggi femminili formidabili, sono talmente vive nei tuoi romanzi che sembra quasi di vederle all’opera. E in questo romanzo ce ne presenti un’altra, una donna che viene dal passato, Ribella. Prima di conoscerla meglio, com’è nato il nome Ribella?
Ribella è un nome anarchico, come quello del suo promesso sposo, Spartaco.
Una nome che sua mamma Bambina – “una ragazza-madre” come si diceva all’epoca – le ha affibbiato programmaticamente per contestare la morale dei bigotti e delle beghine. Ma è proprio questo nome così originale, oltre alla sua nascita illegittima, a fare di lei, fin da piccola, un’emarginata. Una giovane donna destinata a combattere – e a soccombere – ma capace di restare, per la sua forza, nel cuore di chi l’ha amata.
Ribella di nome e di fatto. C’è qualcosa che sa, che ha visto, nella sua breve vita vissuta proprio durante la guerra, qualcosa che non vuole dimenticare e ignorare, in un momento storico dove forse era più semplice far finta di non sapere. Consapevolezza che la porta a compiere delle scelte, mettendo in pericolo la propria vita e con ripercussioni anche sulle esistenze delle protagoniste dei tuoi romanzi. Chi o che cosa ti ha ispirato Ribella?
Mi hanno ispirato i racconti dei fratelli di mia nonna e delle loro mogli che avevano vissuto quel periodo e, con pudore, parlavano a noi bambini della fame e delle privazioni, dei bombardamenti, della paura, delle azioni partigiane e delle rappresaglie, di infernali ritirate a piedi, nella neve alta, con nulla da mangiare.
Erano tempi estremi in cui la vera natura di una persona – la sua spinta a salvare o a tradire il prossimo – poteva emergere con più facilità. Ribella vive quell’atmosfera turbolente. E’ una giovane donna a conoscenza di un segreto vergognoso. Oscuramente intuisce che rivelarlo la metterebbe in pericolo, ma è anche consapevole che non farlo potrebbe costarle molto di più.
In questo romanzo, anche se compaiono gli altri personaggi, le protagoniste assolute sono Libera e Iole, soprattutto per quello che riguarda il rapporto che le lega. Sono madre e figlia, ma troppe volte i ruoli sono invertiti. Qui invece Iole, alla scoperta delle proprie origini è molto più empatica nei confronti di Libera, a tratti di dimostra riflessiva e malinconica. Quanto è importante per Libera e Iole scoprire il proprio passato, la propria storia?
E’ fondamentale, come per tutti noi.
Il passato è la nostra radice, l’origine delle ferite che ci portiamo dentro, anche di quelle di cui non indoviniamo la causa o che ci ostiniamo a negare.
Solo conoscendo il passato lo possiamo guarire, perché la verità è sempre il punto di partenza. Nella storia della famiglia di Libera ci sono molte zone d’ombra (chi le ha ucciso il marito? Che cos’è successo a sua nonna? Chi era suo padre?): mano a mano che viene fatta luce su questi segreti, lei e le altre inquiline del casello cominciano a sentirsi, finalmente, in pace. Penso a quanto si addolcisca Vittoria, quando scopre l’identità dell’assassino del padre. Lo stesso vale per le clienti che si rivolgono a Libera chiedendole aiuto, nel suo strampalato ruolo di detective dilettante.
Paradossalmente, il successo nelle sue indagini aiuterà anche lei a sentirsi più forte.
E, parlando di storia, non si può che pensare a quello che stiamo vivendo in questo periodo. Entreremo di fatto nei libri di Storia che qualche generazione futura si ritroverà a studiare. Ci sta condizionando tanto, al punto che mentre leggevo il tuo romanzo immaginavo i vari personaggi affrontare la quarantena, una tra tutte Iole e il suo spirito libero, Come avrebbe affrontato tutto questo?
Per fortuna i miei romanzi sono ambientati tutti nella stessa stagione, l’estate piovosa del 2014, quando il Coronavirus non era ancora entrato nelle nostre vite.
Libera e le altre, quindi, non dovranno – al momento – misurarsi con quest’emergenza.
Dico “per fortuna”, perché temo di non avere ancora maturato il distacco necessario a raccontare le conseguenze psicologiche della pandemia e del lockdown in modo letterario e non strettamente giornalistico: a mio parere sono due punti di vista differenti.Se penso alle donne del casello durante la quarantena, posso solo immaginare che Vittoria avrebbe continuato a lavorare in Questura, probabilmente occupandosi più di violenze domestiche che di furti e rapine. Libera avrebbe girato per Milano consegnando fiori a domicilio, a bordo della sua Panda, come ha fatto- durante la pandemia – la mia amica fioraia Sarah, e intanto Iole, ribelle a qualunque costrizione, avrebbe compilato un’autocertificazione fantasiosa per avere la possibilità di scorazzare libera tra le vie deserte. Forse avrebbe conosciuto e sedotto qualche affascinante tutore dell’ordine, più probabilmente ne sarebbe stata denunciata. La cosa non le avrebbe fatto né caldo né freddo, comunque.
Ultima domanda, quando tornano le nostre amiche?
A luglio, appena andrò in ferie, comincerò a scrivere la sesta avventura delle donne del casello. E’ tutto l’anno che rimugino e metto a punto storia ambientata nel presente, che però potrebbe scoperchiare un altro segreto legato alla famiglia di Libera, sempre che le cose vadano come le ho programmate. Perché questo è un altro dei misteri dei libri seriali: i personaggi vivono e agiscono in modo spesso autonomo e sorprendente e ancora non so che cosa mi riserveranno Libera, e soprattutto Iole, quest’estate.
MilanoNera ringrazia Rosa Teruzzi per la disponibilità.