Andrea Piva, salernitano, classe 1971, è sceneggiatore di film che hanno riscosso grande successo anche da parte della critica (uno per tutti, La CapaGira, con la regia del fratello Alessandro), scrittore e, a fasi alterne, giocatore di poker online a livello internazionale.
A gennaio è uscito il suo ultimo romanzo, L’animale notturno (Giunti Editore), una bella storia, scritta secondo me benissimo, che parla di un intellettuale cacciato dal giro anche a causa del carattere non proprio accomodante e che a fatica ritroverà, forse, un equilibrio, dedicandosi appunto al gioco online.
Per capire come questi mondi, in apparenza così distanti, si possano conciliare, e soprattutto per conoscere meglio Andrea, ho avuto il piacere di rivolgergli qualche domanda per MilanoNera.
Andrea, tu hai iniziato come sceneggiatore cinematografico. Quando hai capito che anche quello del libro (forse una naturale evoluzione della tua professione iniziale) era un mondo che ti poteva interessare?
In realtà il fatto che io abbia esordito come sceneggiatore e non come scrittore di narrativa è frutto del caso. Anzi, a dirla tutta, prima di LaCapaGira il cinema non mi era mai neanche passato per la testa. Scrivevo poesie, racconti e romanzi già da un decennio buono, e se non ho pubblicato niente di quel periodo è perché la mia scrittura non era matura abbastanza per essere pubblicata. Né ci provavo, a pubblicarla: vedevo anche io come fossi ancora molto lontano da quello che in modo assai confuso sentivo di volere fare. Non avevo ancora trovato la mia voce. L’idea di farmi provare a scrivere un film venne a mio fratello Alessandro dopo avere letto un mio racconto ambientato proprio nella Bari notturna che poi è confluita nel lavoro che ci lanciò. E altri sei o sette anni sarebbero passati prima che mi decidessi, tra mille ripensamenti, a considerare pubblicabile un mio romanzo.
Ho appena detto che il ruolo degli intellettuali (passami la definizione, forse ormai superata) e l’universo del gioco online sembrerebbero due concetti molto distanti fra loro. Qualcuno direbbe “che c’azzecca?”… Ma è davvero così? A leggere il tuo ultimo romanzo, non si direbbe, e in fondo la tua vita ne è una dimostrazione…
Guarda, la mia esperienza personale è bizzarra, forse anche unica: sono stato un giocatore professionista molto atipico, e sono uno scrittore particolare. Al di là, ovviamente, di giudizi di valore: semplicemente, ho giocato da professionista senza la spinta della compulsione, e scrivo cinema e narrativa da quasi trent’anni senza vedere la scrittura come una professione, nonostante qualche pubblicazione e qualche film realizzato. A poker ho giocato per campare prima che per divertimento, e la scrittura la pratico perché non riesco a fare altrimenti, ma senza mirare a camparci. L’una e l’altra cosa sono piuttosto rare nei rispettivi campi. Comunque nella realtà dei fatti è proprio come sembra da fuori di primo acchitto, sono mondi molto distanti, e l’incontro nella stessa persona di due attitudini così diverse mi pare difficile a ripetersi, dico in assoluto: non penso ce la farei di nuovo anche io stesso, se ci riprovassi oggi. Anche nella mia vita è stata probabilmente una finestra di opportunità irripetibile. Anzi se ci pensi nel mio libro ho cercato di rappresentare proprio questo, le grandi difficoltà che un uomo di lettere deve sorpassare per entrare in quello dei numeri. È già molto più facile il contrario, cioè da una formazione scientifica approcciarsi alle lettere, quello delle lettere essendo per ovvi motivi un mondo più facilmente penetrabile. Che poi il mio personaggio, come è successo a me, sia riuscito a compiere con profitto il viaggio nella direzione meno semplice è più rimesso alla fortuna che altro. Questo passaggio di orizzonti richiede un enorme sforzo di adattamento da una concezione del mondo a un’altra, e le insidie sono molte.
Parliamo de L’animale notturno, uscito in libreria in queste ultime settimane, e che ho davvero apprezzato molto, anche per il tuo particolare modo di scrivere. Da dove ti è venuta l’ispirazione per questa storia?
L’ispirazione in sé, in senso ampio, intesa come vago sentore delle potenzialità letterarie di un tema, mi è venuta quando ho iniziato a giocare più seriamente a poker: il mondo del professionismo mi pareva un ambiente molto romanzesco, sebbene in un modo tutto suo. Quando ho iniziato io si era a un grosso bivio: il poker, grazie alla teoria dei giochi, forse per la prima volta nella storia smetteva di essere solo il proverbiale rovinafamiglie che era sempre stato e iniziava a presentarsi come una possibile fonte di guadagni costanti nel tempo, sempre se approcciato nel modo giusto. Poi il nucleo narrativo attorno al quale ho costruito tutto è stato l’incontro nella vita reale con una figura simile a quella del senatore del romanzo, un uomo anziano molto distinto che passava parecchie ore al giorno alla slot machine di un bar che nei miei anni romani frequentavo per la colazione. Già nel 2008 ne parlavo con gli amici, il personaggio mi incuriosiva talmente tanto da farmi continuamente fantasticare di costruirci una storia su. Chi era quest’esserino taciturno evidentemente ricco ed evoluto che passava le sue mattinate appresso a un gioco tanto poco romantico? Dove abitava, con chi, e quale passato si portava dietro? Non l’ho mai saputo, e l’ha saputo invece la mia immaginazione, per così dire. Il risultato è nel libro, e devo dire che a giudicare da quante persone mi chiedono a chi sia ispirato quel personaggio, e se esista realmente, devo averci messo dentro un bel po’ di vita vera, ovvero grandi pezzi di varie altre persone della sua età che ho conosciuto di persona.
Conoscendo un po’ della tua biografia, si direbbe che tu e Vittorio Ferragamo, il protagonista, abbiate parecchio in comune, almeno a livello di vissuto. Confermi?
Be’, io e Vittorio condividiamo molte cose, però più a livello di processi di pensiero che di fatti concreti. Certo, anche io ho avuto una stagione fortunata come autore cinematografico, e anche io ho giocato a poker professionalmente per un certo periodo, ma poi i modi in cui l’una e l’altra cosa mi si sono presentate nella vita vera sono stati totalmente diversi, e, ahimè, molto meno eccitanti. Per dirne una, io la probabilistica che sta dietro al poker l’ho studiata dai libri, da solo, a casa, mentre nel libro il mio personaggio viene educato alla teoria dei giochi da una buffa coppia di anziani scienziati che lo prendono in simpatia e gli insegnano tutto quello che sanno, portandogli in dono anche altre esperienze di vita. Comunque in generale la mia letteratura è un marchingegno che si alimenta di esperienze effettivamente vissute, è difficile che io scriva di cose che non conosco bene. Non ho niente contro chi lo fa, ma non è il mio stile, proprio non mi diverto a inventare di sana pianta ambientazioni e storie. Io prendo quello che vedo, lo sminuzzo in frammenti minuti e poi provo a capire se riassemblando questi frammenti in altre combinazioni riesco a creare storie diverse da quelle vissute, e che però ne contengano la stessa energia vitale, la stessa necessità, magari con una fascinazione maggiore.
Per le riuscitissime figure di contorno, ti sei ispirato a qualcuno in particolare o è tutto davvero frutto di fantasia?
Come ti dicevo, in ogni personaggio sono confluite svariate mie conoscenze della vita reale, ma nessun personaggio corrisponde in toto a un personaggio vero. Come nel caso del senatore, di cui ti dicevo per l’appunto che è stato costruito partendo da un fondamento di verità, sì, ma alla fine è del tutto inventato. Io Andrea Piva non ho mai neanche sentito la voce, del tizio che incontravo la mattina in quel bar e che invece col mio personaggio spende mesi nella stessa stanza. Ma è questo che fa la scrittura, no? Muove il vissuto di questo mondo in un mondo diverso, in una forma con cui il potenziale lettore possa interagire e partecipare meglio, così da poterne anche cogliere aspetti che altrimenti non si coglierebbero, confusi come rimarrebbero nel rumore di fondo della vita vera.
Roma fa da fascinoso sfondo a tutta la vicenda umana di Vittorio. C’è speranza per questa città, così bella e ultimamente sempre più maltrattata, e quali sono secondo te i suoi mali più evidenti?
Ah, per Roma c’è sempre speranza, sta lì da quasi tremila anni, è per noi che la viviamo che ce n’è poca. Siamo noi a non passarcela tanto bene, e quando ne parliamo male stiamo parlando male di noi, a ben guardare. Ma in generale devo confessare che per quanto riguarda i suoi mali forse non sono la persona adatta a parlare, perché come per Vittorio per me Roma potrebbe ben essere seppellita sotto venti metri di detriti e continuare a essere il posto più bello del mondo. Roma è come la sua Domus Aurea, che non è meno abbacinante solo perché ctonia da molti secoli. Roma tutta non ha eguali, e non ci saranno uomini abbastanza miopi rozzi e incivili da cancellarne la maestosa eternità. Io quando ci cammino sento una trama di comunicazione invisibile con i michelangeli e i bernini e i caravaggi che l’hanno abitata. Della spazzatura, del rumore, dei mezzi che non vanno non me ne può fregare di meno. Certo, da cittadino del mondo me ne dolgo, ma boh, se è per questo io sfiderei a duello chi permette di farci entrare le macchine, capisci, sotto quel profilo è già persa per sempre, e non da oggi. Poi però entro nel Pantheon e muoio sopraffatto dal peso della storia. Per me è come una droga. È un oppio dolce e ristoratore. Quando sto male metto Chopin in cuffia, cammino per le vie del centro e solo passare accanto a palazzo Doria Pamphilj, senza neanche entrarci, mi riscatta da tutta la miseria dell’esistenza umana.
Torniamo al tuo “modo” di scrivere, che, ripeto, ho trovato davvero bello, uno dei punti di forza del romanzo, con frasi ampie, dense, molto articolate e un rispetto ferreo (evviva!) della consecutio, cosa ormai non così scontata. Da dove pensi ti derivi questa “facilità” di espressione?
Ti ringrazio molto ma ti confesso che della mia arte sono talmente insicuro che la gioia di un milione di ovazioni non compenserà mai, purtroppo, la pena del singolo giudizio caustico anche del peggior caprone cresciuto a pane e Pomeriggio Cinque. Ogni volta metto in dubbio tutto, mi viene voglia di non scrivere mai più un rigo in vita mia, ci sto male, non dormo la notte. Questo per dire che da un lato non sono per niente sicuro di fare qualcosa di bello, perché ritengo a stento di essere degno di essere pubblicato, e dall’altro che se qualche qualità la posseggo è forse proprio per la mia maniacale insicurezza, che mi impedisce di congedare la pagina prima di averla studiata da tutte le angolazioni possibili per un tempo davvero incongruo a fare di questo, per dire, una professione. Sono trent’anni che scrivo – di più: sono trent’anni che non faccio altro che pensare a come e cosa scrivere, ogni santo giorno della mia vita, e ho pubblicato due romanzi. Leggasi due. Mi pare che la cosa parli da sé.
Nella mia recensione ho scritto che il tuo libro è anche un libro “sul” gioco d’azzardo, che viene presentato in tutte le sue sfaccettature senza la pretesa di darne giudizi moralistici. Sappiamo però che quella del gioco in generale è una passione che, per non farla troppo lunga, comporta anche parecchi rischi. Che consigli ti sentiresti di dare a chi si accosta a questo mondo?
Guarda, per me il punto è la consapevolezza con cui si fanno le cose, non il pericolo intrinseco alle cose. Come ti direbbe un chimico, la tossicità è soprattutto un fatto di quantità. Dico in generale, sia per l’azzardo che per esempio per le droghe. Ma pure le automobili, le moto, le medicine. Ovvio come non tutte le cose siano pericolose allo stesso modo, ma se alle cose ti approcci senza metodo e consapevolezza i guai sono comunque dietro l’angolo. Per esempio io il primo tentativo che farei per aiutare un giocatore compulsivo sarebbe una cura Ludovico a base di matematica probabilistica. Magari non riuscirei a farlo smettere di giocare, ma di certo gli aprirei gli occhi su alcuni aspetti importanti del suo problema. Gli insegnerei come scegliere il gioco con maggiori margini di profitto potenziale, un gioco che magari non lo abbia già battuto prima che si sieda a giocarlo, e magari nel frattempo gli potrei insegnare anche una cosa che altrimenti non avrebbe mai saputo su come funziona il mondo in generale. Qualcosa di grande importanza: non dimentichiamo che la probabilistica è quello che fa funzionare i nostri telefoni e i nostri computer, ed è alla base della fisica quantistica. Il mondo come lo conosciamo è basato quasi per intero sulla teoria probabilistica. Mai come oggi la conoscenza è potere, e mai come oggi la conoscenza è stata tanto accessibile.
L’animale notturno, oltre a essere quello che io reputo un gran bel libro in sé per la storia che racconta, solleva anche interrogativi e riflessioni importanti sul ruolo dell’intellettuale nella società moderna. La conclusione del romanzo, a questo proposito, non è fra le più ottimiste. Davvero ritieni che gli intellettuali stiamo esaurendo la loro funzione nella società 3.0?
No, onestamente no. Non del tutto, per lo meno. Nel romanzo ho un po’ calcato la mano su questo perché credo che sia nostro dovere sollevare la questione anche provocatoriamente, perché se continuiamo a ignorare quello che ci succede intorno a livello scientifico, o peggio a trattarlo per sentito dire, con l’approssimazione tipica dell’era dei social network, rischiamo di portare a conclusione il processo che abbiamo colpevolmente inziato noi stessi nel Novecento, quello di parlare sempre più solo a noi e per noi, guardando per di più con un certo sospetto giudicante al mondo della scienza: processo che è per me la disgrazia ultima dell’arte e delle discipline umanistiche in genere, che si chiudono così sempre di più nella propria sdegnosa ignoranza, perdendo il contatto con le più grandi conquiste dell’umanità. Che non sono mica solo conquiste di tecnica. Parliamo di enormi conquiste gnoseologiche che hanno implicazioni filosofiche senza precedenti. Con buona pace di Benedetto Croce.
Tre scrittori che non potrebbero mancare nella tua personale biblioteca?
Be’, probabilmente direi autori diversi ogni due o tre anni. Oggi ti dico Montaigne, Berto, Bianciardi. Bianciardi e Berto perché sono miei fratelli, di penna e di vita. In questo momento stanno nella stanza accanto alla mia, a giocare a carte e bere vino. Tra poco li raggiungo. Montaigne perché è il Maestro. Se ci penso mi viene da piangere di commozione. Ecco, questo è il senso ultimo della scrittura, per me: aprire il libro di un essere vissuto cinque secoli fa e trovarci così tanto, riuscire a parlarci così tanto direttamente, come se fosse un tuo amico che magari al limite abita in un’altra città. Mi commuove sul serio, non è retorica. A pensarci sto male, di un male confortante e assoluto e tragico ed esistenziale. Leopardiano. Madò, Leopardi. Che cosa crudele, tre nomi. Tre? Davvero? La sera del dì di festa declamata da Bene mi fa accapponare la pelle solo al pensiero, e la ascolto da almeno vent’anni. Ce l’ho sempre con me. Or dov’è il suono / di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / De’ nostri avi famosi, e il grande impero / Di quella Roma…
Oddio, muoio.
Per finire, puoi dirci qualcosa dei tuoi progetti professionali futuri?
Ci sto riflettendo su. Potrei rimettermi a studiare il poker – che ho abbandonato qualche anno fa per scrivere questo romanzo – e fare un’altra stagione competitiva, ma ho anche un paio di progetti cinematografici piuttosto avviati sulla carta, di cui uno scritto in inglese che dovremmo girare a Las Vegas più avanti nell’anno con Thomas Woschitz, un regista austriaco con cui ho già collaborato per un altro lungometraggio. Poi si sta parlando di un adattamento cinematografico dell’Animale Notturno, e anche di un progetto musicale un po’ atipico di cui però non posso dire niente al momento. Insomma è difficile che rimanga con le mani in mano, questo è certo.