Paolo Calabrò, laureato in Scienze dell’Informazione e in Filosofia, collabora con periodici e riviste online. Dopo alcune pubblicazioni di carattere filosofico, è ora uscito il suo primo romanzo, “L’intransigenza”, edito da Il prato.
Paolo, abbiamo visto che la tua formazione e il tuo percorso si sono, finora, principalmente incentrati in campo filosofico. Come mai hai deciso di lanciarti in questa nuova avventura e scrivere dei noir?
È stato un passaggio abbastanza naturale (anche se non facile): approfondendo la tematica del Dio perverso del filosofo francese Maurice Bellet mi sono reso conto che non bastava più spiegarla, bisognava raccontarla.
Nel sottotitolo del tuo nuovo romanzo parli del Dio perverso. Vuoi spiegare di cosa si tratta?
La nozione filosofica di «Dio perverso» descrive il radicale stravolgimento della figura di Dio sviluppatosi nei secoli dell’esperienza cristiana. Dio, originariamente amore e misericordia infiniti, diventa a un certo punto il Dio del dovere: bisogna credere certe cose, bisogna farne certe altre e chi non lo fa avrà la dannazione eterna. Rovesciamento perverso che, in nome della promessa della vita al di là, può rendere infernale la vita al di qua. È quindi il male che l’uomo infligge all’altro uomo (spesso a se stesso) non per volontà di compiere il male (cosa che lo renderebbe più onesto e forse più accettabile), ma nella convinzione di star facendo il bene. Come quando roviniamo la vita a qualcuno costringendolo a fare qualcosa che non vorrebbe, “per il suo bene”. Si può essere malvagi nella miglior “buona fede”. Ma è ancora fede cristiana, questa? Credo di no. Il problema è che molti cristiani non la pensano così.
Sempre nel sottotitolo, “I gialli del Dio perverso”, lasci intendere che “L’intransigenza” è il primo romanzo di una serie, è così?
È vero: sono all’inizio di una narrazione che prevede più fasi ed è già in itinere (il secondo è praticamente concluso). Ma questa storia, così come le successive, si legge autonomamente ed è in sé conchiusa. Né richiede preliminari conoscenze filosofiche da parte del lettore, nonostante sia animato dalla filosofia di Bellet, di cui curo il sito ufficiale in italiano (www.mauricebellet.it). Questo romanzo è un “giallo” a tutti gli effetti.
Siamo abituati, ormai, a leggere thriller e noir intrisi di violenza e delitti efferati. Il tuo noir esce nettamente da questo solco.La mia impressione è che la tua scelta sia dovuta al fatto che la “vicenda delittuosa” che narri ti serva più che altro come base di partenza per indagare e scandagliare principalmente l’animo umano. Mi sbaglio?
No, non ti sbagli, anche se credo che – oltre all’approfondimento psicologico e, se vogliamo, “spirituale” – l’indagine descritta nel libro abbia in sé un ruolo centrale. D’altro canto l’analisi del movente è un motivo del giallo di tutti i tempi e io ho cercato di continuare su questa strada con – spero – qualche originalità.
I protagonisti del tuo romanzo sono sicuramente degli investigatori sui generis. Ce ne vuoi parlare?
Per questa indagine non volevo né i soliti graduati né degli investigatori “per caso”: volevo proprio una coppia di detective “controvoglia” e “senza qualità”. Due impiegati comunali – credo sia la prima volta che compaia questa categoria all’opera in un giallo – che potendo farebbero volentieri a meno di investigare, ma che si trovano costretti dalle circostanze e dall’ambizione e che finiscono per prenderci gusto e per scoprire che, anche quando non ce lo si aspetta, nessuno è veramente senza qualità. Soprattutto quando si sta fingendo nei confronti degli altri di essere qualcuno che non si è. Avendo precisi motivi per farlo.
I due protagonisti svolgono, in qualche modo, un percorso, una sorta di maturazione. “L’intransigenza” si potrebbe anche parzialmente definire come un romanzo di formazione?
I protagonisti sono due quarantenni, parlare di romanzo di formazione è forse eccessivo. Ma è vero che loro sono all’inizio di una evoluzione che mostra e prevede sviluppi ulteriori: la storia di Auriemma e del narratore, Baselice, andrà componendosi un tassello dopo l’altro sotto numerosi aspetti.
Attorno ai due protagonisti ruotano molti altri personaggi, che tu hai molto ben definito. È collegato al fatto che fra i tuoi obiettivi c’è anche quello di indagare la mentalità “comune”?
Sì, ho cercato di dare preminenza a quella mentalità collettiva, o del popolo, che viene prima di quella dei singoli. È un argomento che trovo poco trattato, eppure è fondamentale: in una società, ad esempio, in cui viga la regola aurea della fratellanza universale, dare il proprio mantello a chi ha freddo è qualcosa di ovvio, se non addirittura di obbligatorio. In una società come la nostra, invece, lo stesso gesto è un atto di stupidità (non di solidarietà), nei confronti di un parassita (non di un bisognoso) che avrebbe dovuto pensarci prima (e non che è stato più sfortunato). Le stesse azioni possono apparire diverse, perfino opposte, al variare della mentalità in cui si compiono. È qualcosa di affascinante, che purtroppo non è possibile esaurire qui in poche battute.
Per giungere a svelare il mistero, i protagonisti dovranno rovesciare la “verità” ed il loro stesso modo di porsi di fronte ad essa. Succede spesso anche nella realtà di tutti i giorni?
È ben raro. Ma succederebbe meno raramente se ci sforzassimo di conoscere gli altri – le loro esigenze, i loro pregressi, il loro modo di concepire la vita e la realtà – così come sono, e non così come noi crediamo che dovrebbero essere, in virtù dell’opportunità, delle convenienze sociali, del buon senso (come lo intendiamo noi, ovviamente). Ciascuno di noi è unico e diverso da chiunque altro; e anche se sosteniamo di crederci, in realtà pratichiamo il contrario: amiamo la conformità e preferiamo credere che l’altro sia in errore, anziché riconoscere di non essere in grado di capirlo. Andare incontro all’altro come se, ogni volta, fosse tutta una scoperta da fare, può essere terribilmente faticoso. La filosofia ci insegna che è questa la via della saggezza. Ma chi è così inossidabile da poter dire di esserlo?
Il cubo di Rubik, un rompicapo che accompagna uno dei protagonisti – e con lui i lettori – lungo tutto il romanzo. Penso che abbia un significato simbolico: cosa ci puoi dire al riguardo?
Posso dire che la cosa peggiore che un autore possa fare è svelare il significato dei propri simboli: questo li appiattisce sulla descrizione e tutta la magia – se mai ce n’era stata – finisce. Oppure potrei dire che ha a che fare con l’inconscio e con i complessi rapporti di amore e odio che i protagonisti nutrono nei confronti della vita: dici che qualcuno se la berrebbe?
Ti posso ancora chiedere di citarmi tre libri e tre film di cui non potresti fare a meno?
La domanda più temuta e più amata. Ma, in tutta onestà, è impossibile resistere. E allora: America, di Kafka; Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino; Il fuggiasco, di Massimo Carlotto. E: The Killer, di John Woo; Se mi lasci ti cancello, di Michel Gondry, Le conseguenze dell’amore di Sorrentino, Amami se hai coraggio di Yann Samuell. Lo so, sono quattro. Posso metterci anche una spruzzatina di shoegaze dei ’90? Isn’t Anything, dei My Bloody Valentine. Ascoltalo in cuffia. Dopo tutto il resto ti sembrerà poca cosa.