Esce oggi, mercoledì 18 ottobre, edito da Marsilio, l’ultimo libro di Serge Quadruppani, Rue de la cloche, secondo episodio, dopo Y (2008), di una trilogia poliziesca.
Nato in Francia nel 1952, autore di saggi e romanzi noir, traduttore dall’americano e dall’italiano, è la voce francese di alcuni dei migliori giallisti del nostro paese, da Andrea Camilleri a Massimo Carlotto, da Marcello Fois a Giancarlo De Cataldo.
In anteprima su MilanoNera l’incipit del nuovo romanzo.
Si chiamava Juliette, ma lui non era Romeo. Il suo nome era Léon, traduttore disilluso, amante svogliato, deciso a macerarsi nel suo dolore senza lasciarsi coinvolgere in palpitanti avventure. Se non fosse che ha gettato via il manoscritto di un libro che nessuno ha letto e che pare indaghi sull’ultima delle Grandi Opere del Presidente; che c’è la guerra del Golfo, la Yakuza sbarca a Parigi Est e le banche si scontrano in Rue de la Cloche.
Se non fosse che alle Presses de France gli intrighi dei capoccia valgono un bombardamento chirurgico.
Se non fosse che Juliette è sparita in un buco nero e che fioccano i morti.
Perché Léon ha incontrato Emile K., l’ex superpoliziotto, e allora, come nel Golfo, tutto rientrerà nell’ordine, ma non nell’ordine previsto.
Aprì gli occhi, si disse che avrebbe potuto vivere senza di lei, ed ebbe voglia di morire.
Poi la vita continuò.
Una voce di idiota felice che annunciava le sei lo informò che prima di entrare in un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi non aveva dimenticato di regolare la radiosveglia. Dall’altra parte del muro il suo vicino di casa si raschiava la gola e il canale sinusale, da sotto le lenzuola poté seguire gli sforzi del tizio per riunire i componenti della prima scatarrata della giornata. Quando quello espettorò e accese la radio, Léon si alzò e spense la sua.
Alle sei e cinque, come ogni mattina, mise la testa sotto il getto della doccia e nel frattempo si lavò i denti. Alle sei e un quarto, uscì asciutto e rasato dallo stanzino del bagno e, infilandosi i vestiti puliti disposti la sera prima sulla sedia prevista allo scopo, esaminò la stanza. Sul banco che separava l’angolo-cucina dall’angolo-pranzo, dodici lattine di birra, vuote, equidistanti, erano allineate dietro una bottiglia di tequila piena a metà.
Lo spazzolino per le stoviglie era posato in parallelo al lavandino luccicante e pulito, il nocciolo dell’avocado nel bicchiere si trovava correttamente posto all’angolo sud del tavolo, le mattonelle del pavimento erano sfregate e i cd sistemati in ordine alfabetico. Non si ricordava nulla, ma era contento di sé.
Accese la macchina del caffè e il computer nell’angolostudio prima di piazzarsi davanti allo schermo. Tutto era al proprio posto. Dopo aver buttato giù una tazza si sarebbe messo al lavoro, e alle dieci, quando si sarebbe fermato per andare a fare colazione al Nadaud, avrebbe avuto già dieci o dodici pagine di traduzione alle spalle. Poi, dalle undici all’una, ne avrebbe prodotte almeno sei o sette, e tra il pomeriggio e la sera forse una ventina. Con una media giornaliera di trentacinque quaranta cartelle di venticinque righe di sessanta battute, tra dieci giorni avrebbe consegnato una metà di Death Joba Papiénon, cosa che lo avrebbe tranquillizzato un po’…
I consigli di bellezza di Lady Dipoteva aspettare. Dopotutto, per quel libro, aveva solo un mese di ritardo.
A questo punto del calcolo, la sua mano ben addestrata andò da sola a cercare il manoscritto nel cassetto «Da tradurre», e non lo trovò. Poi la macchina del caffè emise dei gorgoglii. Si girò e scoprì che aveva messo l’acqua ma non aveva riempito il filtro. Staccò l’apparecchio circondato di vapore e ritornò alla scrivania. Che ne aveva fatto di quel dannato manoscritto? Per un istante fissò lo schermo vuoto senza vederlo, poi si girò verso l’angololetto e, di colpo, sentì tutto quel che aveva bevuto il giorno prima, e che non avrebbe più rivisto Juliette.
Afferrando la bottiglia di tequila, si ricordò di quel che era successo al manoscritto e sghignazzò.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Scendi nel mio stomaco, uccello di fuoco, Quetzacoatl tanto atteso, che mi insegna che il mondo è finito e io pure. Agavi divine che crescono sotto il mio cranio, spingete le vostre foglie tra occipitale e parietale, negli interstizi delle placche, nel tettoni-co della coscienza, sotto il vulcano l’es scoppia nel sé, in me la mia ex coppia scoppia. Quando la tequila è là, chi è là? Non sai chi sei, l’identità se ne va. Nato? Dove? Un nulla dove non sei mai nato e mai nascerai.
Quattro ore dopo, il telefono lo strappò dal sonno di tomba che solo gli alambicchi procurano.
«Buongiorno, Léon, come sta?» disse una voce nel suo orecchio.
Cazzo, Papiénon, pensò.
«Buongiorno, Antoine» articolò.
«Senta, per la traduzione di Death Job, c’è un problemino…»
«Oh, mi lasci in pace!»
Riagganciò, rifletté qualche secondo sul baratro verso il quale avanzava e, con un sussulto gioioso, si lanciò. Richiamò e incappò nella segretaria di Antoine Papiénon, direttore di collana alla Presses de France.
«Buongiorno, Léon, come va?» disse lei riconoscendo la voce. «Le passo Antoine.»
«Non vale la pena» tagliò corto, prima di sparare molto in fretta: «Gli dica che il suo manoscritto l’ho buttato fuori dalla finestra e che l’anticipo, me lo tengo. A risarcimento di tutti i rospi che ho dovuto ingoiare per continuare a lavorare nella vostra congrega gesuitica del cavolo.»
«Come? Senta, Léon, lei, io non, non è…»
«È tutto. Ha capito?»
«No, aspetti, glielo passo, non posso…»
«E poi, gli dica anche che l’ho sempre considerato… una larva ipocrita.»
Riagganciò, poco soddisfatto dell’invettiva finale, staccò la spina del telefono e tese la mano verso la bottiglia di tequila ormai quasi vuota. Alcune immagini di col-pevole umidità filmate da John Houston gli passarono nella testa. Ma no, aveva soprattutto voglia di un caffè al bar dell’angolo. Posò la bottiglia e uscì.