I romanzi di Raul Montanari ti violentano l’anima e fanno paura. E’ come quando Roger Glover attacca il giro di basso in “Smoke on the wather”: dopo smetti di ascoltare la dance. Quella narrata dallo scrittore milanese non è violenza fine a se stessa, non è rappresentazione della violenza. E’ la violenza senza filtri di chi ti sbatte in faccia la realtà per dirti: ok amico, prendi atto che la vita, anche se nascondi la testa sotto la sabbia, è questa. E’ la paura primordiale, quella che provavi da bambino, quando era ora di dormire e i tuoi spegnevano la luce della cameretta. Quando leggi Montanari, insomma, sei costretto a fare i conti con te stesso. Se hai scheletri nell’armadio: escono. Infatti per lui la definizione “noir” non è più sufficiente. Racchiudere Montanari in gabbia (di genere, di stile, ecc… ecc…) non è possibile: da tempo è andato irrimediabilmente oltre. Nel “Il Regno degli amici”, primo romanzo per Einaudi, racconta la storia di un gruppo di adolescenti – in testa la musica rock, nel corpo l’hashish – che s’impossessano di una casa abbandonata sui Navigli. Quella casa, antidoto alla noia (della scuola, dei genitori ecc… ecc…), diventa il loro trampolino di lancio per diventare grandi. Il salto, manco a dirlo, fa male. Lascia brutte ferite. Segni nell’anima e graffi sul corpo. Ma, se hai la forza di superarli, dopo puoi entrare nel mondo degli adulti.
Il regno degli amici
Alessandro Garavaldi