Negli anni ’70 del secolo scorso, nell’ambito della musica leggera italiana, si registra la presenza di un fenomeno non privo d’interesse: la frequenza, cioè, di tematiche e componenti testuali propri del genere Giallo o Noir. Data l’assiduità di questi casi e l’esiguità del tempo a mia disposizione, mi limiterò qui a una campionatura esemplare e dividerò gli esempi selezionati in TRE categorie essenziali.
Comincerei con le CANZONI DELL’AMBIGUITA’, i cui testi, per intenderci, introducono elementi del Giallo, ma allusi, indeterminati o irrisolti, affidati insomma all’interpretazione dell’ascoltatore. E’ un’area di canzoni che ha un precedente importante proprio all’ingresso degli anni ’70 con Ho difeso il mio amore, incisa nel 1968 dai Profeti, da Dalida e infine dai Nomadi, struggente versione del brano Nights in White Satin scritto da Justin Hayward, chitarrista dei Moody Blues, gruppo cult della beat generation, che la pubblicarono nel ’67. Colpisce subito che, mentre la traccia musicale resta invariata, nel segno di un rock progressivo, il testo italiano – scritto da Daniele Pace degli Squallor – non traduce assolutamente quello originale, ma ci presenta una storia ben diversa, oscura e inquietante, bisognosa di delucidazione critica:
Queste parole / sono scritte da chi / non ha visto più il sole / per amore di lei. / Io le ho trovate / in un campo di fiori / sopra una pietra / c’era scritto così: / Ho difeso / il mio amore. / C’era una data, / l’otto di maggio, / lei era bella, / era tutta per lui. / Poi venne un altro, / gliela strappa di mano, / cosa poi sia successo / lo capite anche voi. / Questa è una storia / che finisce così, / sopra una pietra / che la pioggia bagnò. / Son
tornato una notte / e ho sentito una voce, / il grido di un uomo / che chiedeva perdono.
Pare infatti, ma non è del tutto certo che il testo alluda a un fatto di cronaca nera friulana dell’epoca, accaduto in provincia di Pordenone, dove un giovane aveva ucciso per gelosia il rivale in amore.
Non sorprende la disinvoltura con cui testi inglesi di canzoni anche famose – proprio negli anni ’60 – venivano tradotti in italiano con stravolgimenti completi del senso originale, ad opera di firme anche autorevoli come Mogol o Herbert Pagani: pensiamo a Down Town di Petula Clark, Space Oddity di David Bowie o addirittura Jesus Christ Superstar. Sorprende invece il fatto che, con questa versione nuova di Ho difeso il mio amore, comincia a entrare nella canzone italiana il Giallo. Qui, solo alluso; quattro anni dopo, però, più esplicito. Nel 1972, infatti, gli Alunni del Sole incidono il concept album Dove era lei a quell’ora, che accenna il dramma, irrisolto, di un uomo che torna a casa dal lavoro, scopre la moglie assassinata e viene interrogato dalla polizia, che gli chiede un alibi e poi lo rilascia, anche se lui non sa o non può giustificarsi:
Solo un grido, mi hanno detto, poi s’è perso nell’aurora. / Dov’era lei a quell’ora? / Dov’ero io a quell’ora. / Io tornavo dal lavoro come tutte le mattine, / solo con i miei pensieri, / e credevo di trovarla nel suo letto come sempre. / Cosa ha fatto lei allora? / Cos’ho fatto io allora. / Ho creduto di impazzire, c’era tanta confusione, tanta gente che chiedeva. / Quella giacca non è mia, è di un altro ve lo giuro, io non ne sapevo niente, / e vi chiedo di lasciarmi, ho una grande confusione, non riesco più a parlare. / “Lei può andare.” / Fuori nasce un’altra aurora, / ma dov’ero io a quell’ora…
Tra le canzoni “dell’ambiguità”, infine, sarebbe iniquo dimenticare Il pescatore di Fabrizio De André, anch’esso datato 1968, ma destinato a perdurare nel tempo e a stimolare altre suggestioni musicali. In questo testo di Faber – uno dei suoi più complessi sul piano interpretativo – l’arrivo di un giovane assassino in fuga su una spiaggia al tramonto (“all’ombra dell’ultimo sole“) non sconvolge un vecchio pescatore solitario, che anzi, senza giudicarlo, gli offre il vino e il pane richiesto, lo guarda ripartire e non lo denuncia ai due gendarmi che giungono a cavallo sulle sue tracce. Più ancora che il pescatore – cui peraltro è intitolato il brano – è la figura dell’assassino a esser qui indeterminata e quasi simbolica, con una raffigurazione senz’altro antitetica a quella che ci aspetteremmo:
due occhi grandi da bambino
due occhi enormi di paura
eran gli specchi di un’avventura.
E qui s’incentra l’ambiguità del sostrato “giallo” del testo: chi è l’assassino? chi ha ucciso? perché è ricercato? potrebbe essere innocente? potrebbe essere un perseguitato politico? E allora la mancata collaborazione del pescatore coi tutori della legge si può spiegare con le ideologie anarchiche di De André, così come il pescatore “evangelico” che versa il vino e spezza il pane rimanda alla Buona Novella di quegli stessi anni…
Seguono poi le CANZONI DELL’APROSDÒKETON, caratterizzate, cioè, dal “colpo di scena” finale o surprise ending, in cui il testo non ha in sé nessun elemento Giallo o Noir fino alla conclusione, appunto, tanto sanguinosa quanto inattesa. Il termine greco aprosdòketon rinvia a Marziale, scrittore romano del I secolo a.C., che col suo fulmen in clausula concentrava l’arguzia di molti suoi epigrammi nella chiusa. Due almeno risultano gli anticipatori nobili di questa tendenza negli anni ’60, Sergio Endrigo ed Enzo Jannacci. Il primo, in Via Broletto 34, del 1962, racconta di una donna amata intensamente pur nelle sue inquiete infedeltà, che ora dorme serena, senza sogni, insensibile ai rumori e alle voci del mondo. Finché l’ultimo verso chiarisce di colpo la ragione di quell’immobilità:
Se passate da via Broletto / al numero 34 / potete anche gridare, fare quello che vi pare, / l’amore mio non si sveglierà. / Ora dorme e sul suo bel viso / c’è l’ombra di un sorriso, / ma proprio sotto il cuore / ha un forellino rosso / rosso come un fiore. / Sono stato io, / mi perdoni Iddio.
Dunque soltanto la “clausola”, improvvisa, svela omicidio e assassino. E non diversamente, nel 1964, l’ironia di Jannacci affidava agli ultimi versi de L’Armando la rivelazione di un fratricidio, conclusivo di una vita di soprusi e violenze:
Era quasi verso sera, / se ero dietro, stavo andando, / che si è aperta la portiera / ho cacciato giù… pardon… è caduto giù l’Armando.
Ma è ancora una volta con gli anni ’70 che la tecnica dell’aprosdòketon in Giallo raggiunge il suo miglior risultato con Il tagliacarte di Riccardo Cocciante (nell’album L’alba del 1975): una storia d’amore apparentemente semplice, risolta con la fine di quell’amore, con un uomo abbandonato dalla sua donna che le lascia, per ricordo di sé, soltanto un tagliacarte. Poi, dopo un ultimo giro a salutare i pochi amici, si mette in tasca una foto di lei, indossa un cappotto che lo difenderà dal freddo e se ne va per sempre, senza voltarsi indietro. E gli ultimi due versi, dedicati a lei, spiazzano all’improvviso:
ti lascio solo il tagliacarte
il tagliacarte nel tuo cuore.
Altro femminicidio, dunque, come nella canzone di Endrigo, dove vittima e assassino si dichiarano di colpo solo alla fine. Ma qualcosa di simile era già avvenuto nel 1971, in un testo poco noto di un cantante notissimo: mi riferisco a Una storia come questa di Adriano Celentano, in cui l’amore così intenso del protagonista per la sua donna (pur adultera) non indurrebbe l’ascoltatore a intuire il tragico epilogo del loro rapporto, affidato anche qui all’imprevista, drammatica chiusa:
L’ho afferrata per la gola e sempre più / la stringevo forte e gli occhi suoi / sembravano più grandi. / E mentre mi portavan via / erano bianche le sue mani / era fredda la sua pelle, / io guardavo e non capivo. / E mentre mi portavan via / eran mani le sue bianche / era pelle la sua fredda, / c’era il treno sulla nebbia, / la maestra mi picchiava, / treno, pelle, bianca, nebbia, / la maestra sulla fredda / mentre mi portavan bianca…
Il finale del testo – con una dissolvenza sconnessa che allude alla follia dell’io narrante – introduce già il terzo gruppo di CANZONI, che chiamerei della DETECTION CONCLUSA, dove si assiste a una piccola storia gialla svolta in modo progressivo e completo, con premessa, colpevole, vittima (non più solo donna) e movente. Qui il tema della follia ritorna con Clinica Fior di Loto s.p.a. dell’Equipe 84 (1973), storia di un uomo che si risveglia in una clinica psichiatrica e lentamente inizia a ricordare il motivo per cui si trova rinchiuso, ossia l’uccisione della moglie e del suo amante colti in flagrante. Ma l’esempio artisticamente più alto con cui vorrei concludere si registra con Lella, condotto alla notorietà dal gruppo Schola Cantorum nell’album Coromagia del 1975, ma già inciso nel ’70 dai suoi autori Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Palli. Il testo – in dialetto romanesco, e via via eseguito nel tempo da romani veraci quali Edoardo Vianello, Lando Fiorini, Antonello Venditti e Claudio Baglioni – risulta ispirato da un fatto reale di cronaca dell’ultimo giorno del 1968, ossia il ritrovamento di un cadavere di donna alla Fiumara presso Roma. Qui la canzone, in un modo certamente peculiare, ci presenta il punto di vista dell’assassino, che si confessa a un amico quattro anni dopo l’omicidio:
Te la ricordi Lella, quella ricca? / La moje de Proietti er cravattaro, / quello che c’ha er negozio su ar Tritone? / Te la ricordi? Te l’ho fatta vede / quattr’anni fa e nun volevi crede / che ‘nsieme a lei ce stavo proprio io. / Te la ricordi poi ch’era sparita / e che la ggente e che la polizia / s’era creduta ch’era annata via / co’ uno co’ più sordi der marito? (…) Je piaceva anna’ ar mare quann’è inverno, / fa’ l’amore cor freddo che faceva / però le carze nun se le tojeva / a la fiumara ‘ndo ce sta er baretto / tra le reti e le barche abbandonate / cor cielo griggio a facce su da tetto. / ‘Na matina ch’era l’urtimo dell’anno / me dice co’ la faccia indifferente / “Me so stufata, nun ne famo gnente / e tirame su la lampo der vestito.” (…) Tu nun ce crederai, nun c’ho più visto, / l’ho presa ar collo e nun me so’ fermato / che quann’è annata a tera senza fiato. / Ner cielo da ‘no squarcio er sole è uscito / e io la sotterravo co’ ‘ste mano / attento a nun sporcamme sur vestito. / Me ne so’ annato senza guarda’ indietro, / nun c’ho rimorsi e mo’ ce torno pure, / ma nun ce penso a chi ce sta là sotto, / io ci aritorno solo a guardà er mare. / E te lo vojo di’ che so’ stato io / so’ quattr’anni che me tengo ‘sto segreto, / te lo vojo di’, ma nun lo fa sape’, / nun lo di’ a nessuno, tientelo pe’ te…
Una storia, dunque, di periferia: forte, cruda, popolare, vicina a certe pagine di Pasolini, segnata da un raptus di violenza e dalla completa assenza di pentimento. Un “delitto senza castigo”, insomma (per citare Dostoevskij o Woody Allen), affidato però a un testo di notevole quoziente estetico, che suggella al meglio questa mia piccola rassegna, esemplificativa di una stagione musicale ormai conclusa.