“Rido e piango per il David”, incontro con Filippo Vendemmiati

Filippo Vendemmiati, giornalista della Redazione Rai Emilia Romagna, il 7 aprile scorso si è aggiudicato la 55^ edizione del David di Donatello, il più insigne premio cinematografico italiano, per la sezione documentari con “E’ stato morto un ragazzo”, di cui è autore e regista.

Filippo, questa intervista era stata concordata poco prima del conseguimento del David di Donatello, quando hai presentato al Circolo Arci VOODOO di San Giuseppe di Comacchio il tuo film-documentario sulla vicenda di Federico Aldrovandi. Una sentenza di primo grado ha recentemente condannato gli agenti che intervennero all’alba del 25 settembre 2005 in Via Ippodromo a Ferrara. L’opinione pubblica è stata sensibilizzata molto dopo il fatto di cronaca nera. Cosa significa per te questo premio?

Anch’io, come ha scritto Patrizia, mamma di Federico, nel suo blog, rido e piango. Ipocrita sarebbe nascondere una grande soddisfazione personale che estendo a tutti quanti hanno condiviso con me questa avventura. Da Marino Cancellari, amico e collega, a Simone Marchi, Valentino Corvino, a Massimiliano Braiarava Cossati, a tutta la Promo Music, a Beppe Giulietti, portavoce di articolo 21. Siamo andati ben oltre qualsiasi traguardo iniziale, ben oltre ai sogni, direi. E poi piango, quando penso su cosa appoggia questo successo, quando penso che sarebbe stato meglio non vincere nulla perché niente di tragico sarebbe successo. Qualcuno ci ha dato una mano e oggi la sua dignità e quella della sua famiglia sono salve.

E che significato ha assunto il premio Vittorio De Seta, che hai conseguito a Bari in gennaio, quale miglior regista di film documentario, nel corso del “Bari International Film & TV Festival”?

Non conoscevo nessun giurato, nessun organizzatore, totalmente estraneo dal mondo della produzione cinematografica. Non so se anche questo premio è stato meritato, so però che c’è anche una Italia pulita, che sceglie e si assume le proprie responsabilità. Insomma questo non è solo un paese di sana e robusta prostituzione.

Ho assistito alla proiezione de “E’ stato morto un ragazzo” in apnea, come se un peso allo stomaco mi togliesse il fiato: l’incalzare di versioni contrastanti con quelle ufficiali, circa la dinamica dei fatti che portarono alla morte del giovane ferrarese, induce lo spettatore a cercare la verità insieme alla famiglia di Federico, agli avvocati e al giornalista-regista, ma lo stimola anche ad indignarsi. Non c’è più il coraggio di indignarsi nella nostra società?

Bisogna riscoprire le sani ragioni dell’indignazione e della rabbia e anche questo senso di ribellione il film vuole stimolare. Il produttore americano Samuel Goldwin, fondatore della casa cinematografica Metro Goldwin Mayer, quella del leone, coniò una frase passata alla storia: Se vuoi mandare un messaggio, non fare un film, invia un telegramma. Chiedo scusa alla Metro, che probabilmente non avrebbe mai prodotto questo lavoro, in questo imitata nella realtà dalla Rai, ma in questo caso i telegrammi si chiamano dignità e giustizia. Ringrazio di cuore le giurie che hanno ricevuto e compreso questi messaggi.

Il tuo film non è solo una denuncia nei confronti degli insabbiamenti, dell’omertà, degli abusi di potere che stavano per “derubricare” il caso Aldrovandi come un decesso per overdose. “E’ stato morto un ragazzo” lancia anche un messaggio positivo. Vuoi approfondire questo aspetto?

Certo, anche se non è facile, bisogna guardare oltre la denuncia e cogliere che in qualche modo pur tra mille difficoltà e contraddizioni, almeno in questo caso c’è stata una parziale giustizia parziale e non ancora definitiva. Gli autori del pestaggio e chi li ha coperti sono stati condannati in primo grado, lo stato ha concesso un risarcimento allo famiglia che è un evidente e chiaro riconoscimento di colpa. Altra strada resta da fare. A tutt’oggi la considerazione invece più negativa è che quei quattro “fuorilegge” in divisa che quella mattina a Ferrara provocarono la morte di Federico Aldrovandi sono ancora regolarmente in servizio, sono solo stati trasferiti come poliziotti in altre questure.

Il tuo impegno, attraverso il libro e il dvd, è quello di una battaglia per il riconoscimento della dignità di Federico. Può anche aiutare a far luce su altri casi di cronaca nera analoghi…

C’è un’associazione che sta nascendo, si chiama Le loro voci. Unisce vittime e familiari di chi ha subito soprusi dallo stato. Aldrovandi, Bianzino, Cucchi, Gugliotta, Sandri, Scaroni, Uva. L’associazione ha il compito di fornire tutela legale e psicologica, di osservare e controllare perché altri non possano ambire a passarla impuniti Non è un’associazione contro le forze di polizia, ma anzi a tutela della loro trasparenza, a tutela di chi fa questo mestiere in modo onesto, e sono tanti.

Il libro e il dvd sono il frutto di una ricerca rigorosa e appassionata della verità, condotta insieme a Patrizia, mamma di Federico, a fianco dell’avv. Fabio Anselmo. Una sentenza di condanna è stata formulata, dopo che le perizie hanno dimostrato che la morte di Federico è dipesa dallo schiacciamento del torace, procurato dagli agenti delle volanti intervenute in Via Ippodromo quella mattina. Con quale intento seguirai anche le fasi dibattimentali di secondo grado?

Ci sono ancora punti oscuri nella vicenda e in particolare c’è una domanda, anzi la domanda. Che cosa ha provocato lo scontro fisico tra Federico e gli agenti? Si può rispondere oggi a questo mistero solo con ipotesi, io ho le mie e anche piuttosto precise, ma non sono suffragate da prove concrete ed elementi precisi. Questo sto facendo, provare a rispondere a questa domanda, al di là e oltre le vicende giudiziarie. Intanto a meta maggio ci sarà il processo d’appello per i quattro agenti e sarà fondamentale riconfermare la sentenza di condanna di primo grado. Dopo di che e quando arriveranno elementi nuovi e fondamentali, i casi e le indagini si possono sempre riaprire.

katia romagnoli

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