Con Aurora (Laurana Editore, collana Calibro 9, 2024) Marina Visentin si conferma una delle penne più intense del crime psicologico.
Una favola nera, un noir in piena regola, un thriller che incalza il lettore, Aurora è tutto questo. Forse non è un giallo canonico, e neppure uno splatter dalla violenza gratuita. Eppure la tensione che trasmette al lettore è ipnotica e incessante, e mostra con drammatica evidenza ciò che è sepolto nell’inconscio di ognuno e che a volte deflagra dietro la spinta di eventi occasionali. Con esiti nefasti.
Da sempre, infatti, l’autrice non fa mistero del suo obiettivo: indagare le dimensioni della paura, quella che ognuno nasconde al mondo, conseguenza di traumi passati, di interazioni sciagurate, di eventi rimossi ma mai elaborati. La sua penultima bibliografia del resto parla chiaro, tre ritratti plastici di tormentate figure femminili: la protagonista di Biancaneve (Todaro, 2010) che non ha nome, ed è giusto così, perché lei stessa non si riconosce il diritto a una dimensione autonoma, solo di vivere all’ombra di qualcuno; Stella Romano che ne La donna della pioggia (Piemme, 2017), è moglie e madre che vive una vita in apparenza normale, quando all’improvviso inizia a “perdere il tempo”, preda di vuoti mentali che sembrano inghiottirla e di attacchi di panico che sovvertono l’universo fino ad allora conosciuto; Giulia Ferro che in Cuore di rabbia (SEM, 2022) e ne Gli occhi della notte (SEM, 2023) è invece una donna realizzata nella professione, un vicequestore, che però vive i rapporti sentimentali sempre pronta a fuggirne sotto il peso di ferite passate e di ricordi ingombranti che non vorrebbe disseppellire.
E ora Aurora. Aurora che non è la protagonista, Aurora che porta in sé una doppia valenza, di ombra e di luce, e un duplice significato. Aurora di cui non posso parlare.
La protagonista invece è Gemma Teodori, affermata gallerista milanese prossima ai quarant’anni, di bell’aspetto e giuste conoscenze. Come si conviene a chi si muove nel privilegiato mondo dell’arte e della buona borghesia meneghina.
Gemma che con il concetto di duplicità (di nuovo!) non scherza per nulla. Gemma che mostra al mondo un’apparenza impeccabile, di aspetto modi professionalità gusti, il tutto sotto il segno della luce, del successo, dell’eleganza, del controllo.
Gemma che, sotto la spinta di eventi che non riesce a spiegare, banali forse – uno sconosciuto che con insistenza cerca informazioni a suo riguardo, passi che la seguono, una presenza fugace sulle scale del suo palazzo -, si sgretola, cade preda di incubi e sente riaffiorare tutto quello che ha cercato di nascondere. Per proteggersi.
Già, perché fuori dall’inquadratura (giorno, luce, evidenza, controllo) c’è l’ombra (buio, notte, paura, segreto).
Già nelle prime pagine del romanzo, l’ipotetica minaccia si scioglie in una spiegazione banale, eppure il meccanismo perverso non può essere disinnescato e condurrà a esiti infausti.
Eppure Gemma sembra vivere di privilegi: ha un fidanzato, Roberto, artista sensibile; Marcella, che vuole prendersi cura di lei; abita in un bel palazzo borghese del centro; ha un socio, Livio, che l’ha spinta ha a organizzare una mostra, OFELIA/E (ancora il doppio!), da poco inaugurata e già celebrata dalla critica che conta.
Gemma però è sola, senza esserlo davvero, per sua scelta. È sola perché sceglie di esserlo, nel profondo, e lo sceglie perché qualunque relazione – sentimentale, amorosa, erotica – può ferire e indurre a un cambiamento tale da incrinare lo scudo protettivo che lei oppone al mondo. Anche se il pericolo che quel cambiamento può portare con sé non è privo di attrattiva.
Le due figure maschili che più le si avvicinano nel romanzo, Roberto il fidanzato e Vittorio di cui non posso dire, rappresentano in qualche modo i poli di quell’ambivalenza di Gemma.
La solitudine è un filo conduttore del romanzo, come altrettanto, e forse di più, lo è il tema dell’acqua. A dispetto della rassicurante associazione materna, indica qui un collegamento all’inconscio e a tutto ciò che vi è segregato, rimosso, dimenticato.
Per Gemma l’acqua è torbida, scura, invernale. Non ama Canobbio dove Roberto ha scelto di ritirarsi, buono soltanto «se ti piacciono le piante, l’umidità, la solitudine»; non ama Venezia che conosce bene ma solo di rado riesce a far breccia in lei e «Quando capita, è come una lama nel cuore. Una ferita. Uno squarcio su un aldilà di acqua torbida e case in bilico sul nulla, evanescenti fantasmi di altre epoche». Non a caso abita a Milano, dove non c’è acqua, lontana perfino dai Navigli.
Non ama neppure Ofelia, l’eroina shakespeariana, mito nell’arte di Millais e donna in quella di Delacroix, ispiratrice delle installazioni esposte nella sua galleria. La odia addirittura, manifesto dell’arte dei Preraffaeliti,«donna-bambina bellissima e morta, distesa nell’acqua con gli occhi aperti, la bocca socchiusa, le braccia spalancate, come offerta al mondo». Acqua, ancora una volta, priva di trasparenza, verde che trascolora in un bruno limaccioso. E ombra, di morte.
Aurora è romanzo della maturità, di un’autrice che coniuga la capacità di inquietare il lettore con la profondità di svelare i meccanismi più profondi della psiche umana.
Visionario, non solo visivo, nell’abilità con cui ci trascina negli incubi sequestranti della protagonista, ma anche lungo le calli veneziane, sempre più strette, claustrofobiche, che divengono vicoli maleodoranti, popolati di passi paurosi. Visionario nell’immaginazione potente con la quale dà corpo (sì, tutte di sua invenzione) alle trentasette installazioni esposte nella mostra OFELIA/E. Ne cito due, folgoranti. MitoSÌ/MitoNO (di nuovo il doppio!), formata da due quadri, a sinistra solo il ricchissimo abito dell’eroina ma «gonfio di acqua scura», a destra «avvelenata, imputridita; La resurrezione di Ofelia in cui, trasformata in una sorta di arpia fatta di fili metallici e veli bianchi, si libra su uno specchio ovale che suggerisce l’illusione dell’acqua che scorre.
Il romanzo alterna sapientemente l’io narrante della protagonista al punto di vista esterno, quasi replicando l’inquadratura cinematografica soggettiva e quella neutrale. Esigenza peraltro dettata dalla necessità di non limitare la narrazione al solo sentire di Gemma, ai suoi incubi, al crescendo di angoscia che la divora. Ogni capitolo porta data e ora dell’azione, dal 16 novembre alla mattina di Natale, in una sorta di raccapricciante calendario dell’Avvento di cui l’autrice si diverte a mescolare le caselle.
Lo stile è fluido e inquietante, il lessico preciso e magnetico. Cattura, lo ripeto, per la potenza evocativa delle immagini e del sentire, per un narrare mai fine a se stesso, per una valenza simbolica e profondamente empatica del tema trattato.
Una prova davvero superba, che mi ha conquistato.