Superare il limite – Lo spazio nero 8

Scrivere narrativa di genere giallo e noir ha i suoi vantaggi: una vasta produzione letteraria di riferimento, un solido insieme di costrutti al quale ispirarsi, un’imponente serie di variazioni sul tema e non ultimo, il fascino imperituro dell’argomento trattato.

Eppure scrivere gialli – in senso stretto – č ben diverso dallo scrivere storie noir o contaminazioni di qualsiasi altro tipo e colore. Questo l’aveva giŕ capito Willard Huntington Wright, alias S. S. Van Dine.

E l’aveva capito anche – in senso letterario – Philo Vance.

Quando, nel 1926, uscě il mystery “The Benson Murder Case” – poi tradotto in Italia con il titolo “La strana morte del signor Benson” – furono in molti a rimanerne sorpresi. Non tanto per l’impianto narrativo, codificato e “a regola d’arte”, quanto per il protagonista: Philo Vance, appunto.

Erede di Dupin e di Holmes, Philo Vance era perň politicamente scorretto e ai limiti di una morale che cominciava a porsi inquietanti interrogativi sul significato di termini fino ad allora universalmente accettati. Termini, per intenderci, del tipo: “bene” e “male”. Vance, investigava – nel primo cosě come nell’ultimo dei dodici volumi che lo vedono protagonista – con una tenacia, una capacitŕ una logica di stampo culturale chiaramente vittoriano eppure, al contempo, era in grado di prendere decisioni all’epoca e tutt’ora, scomode o scorrette.

Come far uccidere un assassino, per esempio.

Ogni regola, come ben sanno i miei allievi di MacAdemia, una volta appresa dev’essere dimenticata. Ogni lezione, una volta interiorizzata e fatta propria, dev’essere concettualmente superata. Ogni strumento, padroneggiato e compreso nella sua piů profonda essenza, dev’essere abbandonato. Questi – dal mio punto di vista – sono i presupposti per la creazione di un qualche cosa di nuovo.

Willard Huntington Wright, nel 1928, scrisse “Twenty Rules for Writing Detective Stories”, ovvero “Venti regole per scrivere romanzi polizieschi”. Sulle venti regole – che vanno capite, interiorizzate e superate – torneremo piů avanti. Quello su cui oggi mi interessa farvi riflettere č l’incipit di quel testo. Eccolo: “The detective story is a kind of intellectual game. It is more — it is a sporting event. And for the writing of detective stories there are very definite laws — unwritten, perhaps, but none the less binding; and every respectable and self-respecting concocter of literary mysteries lives up to them. Herewith, then, is a sort of Credo, based partly on the practice of all the great writers of detective stories, and partly on the promptings of the honest author’s inner conscience.”

In italiano, e grazie alla traduzione di Luca Conti, suona circa cosě: “Il romanzo poliziesco č un tipo di gioco intellettuale. Anzi, č qualcosa di piů: una gara sportiva. Ed esistono leggi ben precise che governano la scrittura di romanzi polizieschi: leggi non scritte, forse, ma ugualmente vincolanti, con le quali si deve misurare ogni rispettabile inventore di misteri letterari che sia anche onesto con se stesso. Ecco di seguito, quindi, una sorta di Credo, basato in parte sull’esperienza di tutti i grandi autori di romanzi polizieschi e in parte sulle sollecitazioni della coscienza dell’autore onesto”.

Onestŕ intellettuale, quindi, che spesso – come discutevano qualche puntata fa – deve scontrarsi con “Lo spazio nero” di ciascun autore. E con infiniti gradi di presunzione.

Fabio Fracas

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