Seguendo il filo del ragionamento che stiamo – assieme – seguendo ci siamo trovati davanti a una serie di casseforti chiuse al confronto delle quali anche “Lo spazio nero” sembra meno “oscuro” e insondabile.
Definizioni come “presunzione di trasmettere o di comprendere”, “conoscenza della realtŕ” e altre – tutte quelle che finora abbiamo incontrato – sono talmente vaste e complesse che rappresentano ciascuna un piccolo buco nero nel quale č possibile, senza fatica, sprofondare. I rischi di un tale annichilamento sono molteplici: dalla “falsa retorica” all’autocompiacimento, dalla speculazione sofistica al “partito preso” e cosě via.
Per questo motivo č arrivato il momento di “lasciar perdere”. Almeno per ora.
Lasciar perdere o meglio “lasciarsi perdere”, č perň qualcosa di effettivamente complesso. Perché mai dovremo “lasciar perdere” discorsi ai quali abbiamo dedicato tanto tempo cosě: di punto in bianco? Cosa significa il “perdersi in un libro” per ciascuno di noi? La letteratura č ancora un luogo “non luogo” nel quale valga la pena perdersi? E piů in generale, sappiamo ancora perdere qualcosa per guadagnare qualcos’altro? Letterariamente parlando. E non solo.
Una delle mie lezioni – la seconda del Corso Generale di Introduzione alla Narrazione I, per l’esattezza – ha questo titolo: “Quello che so della scrittura – 42 motivi per dimenticarselo prima di mettersi alla prova”. Puň sembrare una provocazione e forse lo č. Ma, se anche cosě fosse, dovrebbe mettere in chiaro almeno un concetto: lasciarsi perdere.
Certo, pensare che “lasciarsi perdere” sia una delle chiavi che aprono alcune casseforti puň sembrare – ne sono consapevole – piuttosto difficile. Eppure basta ricordare che – se mai capitasse – l’unico modo per scampare a un gorgo d’acqua consiste nel lasciarsi trasportare al suo interno dalla corrente. Anche se non č cosě semplice: lasciarsi trasportare e sopravvivere. Intendo.