Agosto 1942, Russia orientale. Nicolae Tincu e Bianca Costin, una coppia di scienziati rumeni in viaggio verso Dobrinka, quartier generale della Sesta Armata dell’esercito tedesco, si allontanano dall’aereo che li sta trasportando atterrato in emergenza per un guasto e scompaiono.
Martin Bora, maggiore della Wehrmacht e dell’Abwehr, servizio di controspionaggio dell’esercito tedesco, è chiamato a indagare mentre intorno imperversa la bufera della guerra. La sparizione, che diventerà presto omicidio, dei due rumeni fornisce l’enigma che alla fine sarà brillantemente risolto da Bora, tuttavia non costituisce la parte più importante e interessante del romanzo.
Ciò che davvero coinvolge il lettore è il dolore della guerra. La Sinagoga degli zingari è un racconto doloroso e privo di retorica di una delle pagine più dure della seconda guerra mondiale: l’assedio di Stalingrado dall’agosto 1942 al gennaio 1943.
Il 24 gennaio Bora scrive nel suo diario parole drammatiche: “Qui l’agonia continua, peggio di prima. Da quindici giorni siamo sotto attacco costante, una tempesta di fuoco. Gli ultimi otto giorni abbiamo combattuto porta a porta. Gruppi di sbandati provenienti dall’ovest – ……………….. – vagano per le vie giorno e notte. Non hanno cibo; non hanno armi; non si radono da giorni. Di notte li sentiamo prendere a pugni le porte dei rifugi e dei ridotti, urlando per farsi aprire con voci rese mostruose dalla disperazione.” In questa atmosfera di degradazione e di miseria dove l’uomo appare ridotto a una maschera di dolore e di umiliazione la pietà ha un posto importante all’interno del romanzo. Il protagonista che da assediante diventa braccato all’interno della città non dimentica di essere un uomo nel senso di essere umano e prova compassione per i soldati morti o che moriranno presto, ma anche per il cecchino russo che si rivela essere una ragazza “che si scioglie i capelli; si appunta i capelli e si agghinda per la Morte” dopo aver ucciso un buon numero di soldati tedeschi e per le donne del kolchoz dove lui e i suoi uomini travestiti con uniformi russe trovano rifugio nella disperata fuga da Stalingrado e che condividono il poco cibo che hanno. Bora vorrebbe sdebitarsi dando loro la fede d’oro regalatagli dalla moglie Dikta, ma la vecchia matriarca della fattoria rifiuta dicendo: “Figlio mio, non te ne privare. Non importa da dove venite. Siete cristiani e perduti nella notte. Dormite qui e poi andate con Dio.”
La sinagoga degli zingari è un pensiero costante di Bora nel corso del romanzo, in realtà si tratta del titolo di un ciclo musicale che il padre di Bora, compositore e direttore d’orchestra, aveva musicato nel 1905 insieme ad altri tre musicisti russi e doveva echeggiare la città perduta di Kitez, sommersa dalle onde del Volga durante l’assedio di Gengis Khan. Tuttavia Bora si chiede come mai una sinagoga abbia il nome degli zingari dal momento che questi ultimi non sono ebrei. Il protagonista non riesce a darsi una spiegazione, tuttavia la sinagoga degli zingari costituisce per lui un luogo misterioso e irraggiungibile, come la mitica città distrutta, ma forse per questo per il maggiore Bora rappresenta un porto sicuro legato all’infanzia. “Se non fossimo al buio” si dice a un certo punto, “forse potrei scorgere laggiù la Sinagoga degli zingari, irraggiungibile e sicura nella sua insormontabile distanza.”
Dal momento che i romanzi di Bora non sono pubblicati in ordine cronologico e quindi sono già usciti libri che parlano di vicende successive al 1943 (per esempio il bellissimo Kaputt Mundi ambientato nella Roma occupata dai tedeschi nel 1944) non credo di fare alcuna anticipazione dicendo che il maggiore della Wehrmacht e anche laureato in filosofia riuscirà a cavarsela e a raggiungere Praga, tuttavia l’esperienza di Stalingrado rimarrà per sempre incisa nel suo animo: “Noi che siamo tornati da Stalingrado, dovremmo riconsiderare con attenzione il concetto di merito. Di cosa siamo degni, cosa possiamo ragionevolmente aspettarci dalla vita dopo essere sopravvissuti? La sopravvivenza stessa è la sostanza del merito? Se è così, non abbiamo diritto di aspettarci altro.”
Ben Pastor, nata a Roma e docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto diverse serie di polizieschi tra cui quella di Martin Bora dove la cura e la fedeltà alla realtà delle vicende storiche raccontate raggiungono livelli molto alti traghettando i romanzi della serie dal genere alla pura e semplice letteratura.
Concludendo mi sento di raccomandare la lettura di La sinagoga degli zingari, come degli altri romanzi della serie, non solo agli amanti del genere giallo o del genere storico, ma a tutti perché alla piacevolezza della lettura si unisce la conoscenza documentata di pagine di storia non troppo lontane da noi e che ci hanno toccato profondamente.