Il povero Giallone arrancava sulla strada. Non era importante fosse in salita: dopo quasi 300 km di marcia, un culo ormai quadrato e le gambe semiparalizzate, avrebbe arrancato anche in discesa. Ma ne valeva la pena. Si, insomma, le lentiggini di Sara valevano bene una gita domenicale a Minerbio.
In realtà, Enrico Radeschi non aveva mai neanche sentito nominare quella cittadina della bassa bolognese prima di conoscere Sara; e invece adesso eccolo lì, in groppa al suo Giallone, ad attraversare stradine di campagna tutte uguali per riuscire a capire dove si trovasse di preciso, in cerca di una casetta circondata da campi di grano e girasoli, come altre cento incontrate lungo la strada.
Aveva conosciuto Sara qualche mese prima: era rimasto rapito da quella esile figura che danzava all’ombra del Duomo, in una coreografia di cui non era sicuro di comprendere il senso, ma che in qualche modo lo emozionava. Era tornato più volte a osservarla, lasciando tutte le volte il suo piccolo contributo nella custodia della chitarra che Sara portava con sé, e con la quale concludeva sempre la sua esibizione. Inutile dire che aveva una voce incredibile, potente come non ti immagineresti per un corpo così gracile. D’istinto Enrico concluse che in realtà doveva essere una attrice: che cantasse, suonasse o danzasse era così intensa ed espressiva che sembrava recitare.
“Grazie. Mi offriresti anche un panino? Avrei un po’ di fame”
Così, semplicemente.
E da un panino a una birra, a una cena, a un cinema, a un teatro. E ora quella breve vacanza in una sconosciuta cittadina dell’hinterland Bolognese, nella casa dei genitori di Sara, ovviamente via per le ferie.
“Ma questa Via San Donato non finisce mai?”
Splendida giornata di sole, peccato solo per il caldo, da queste parti veramente asfissiante.
“San Martino in Soverzano, dovrei essere vicino”
Il Motorola squillò proprio mentre fiancheggiava un castello. Fortunatamente, erano i soliti ultimi segni di vita di quell’inutile cellulare dal quale non riusciva a separarsi, così poteva dedicare tutta la sua attenzione a quel luogo. Una strana sensazione, come di dejà vu lo stava assalendo. Era certo di non essere mai stato da quelle parti, neanche in un’altra vita, ne era sicuro. Eppure quel castello lo conosceva.
Aveva già visto quel porticato con i lunghi tavoli in legno che lo facevano somigliare ad una trattoria, quella struttura in ferro che ricordava un drago che sorregge un cappello papale, il viottolo ciottolato che conduceva all’ingresso del castello: ma non c’era nessuno a cui chiedere informazioni, né sul castello, né sulla strada per raggiungere San Giovanni in Triario, dove era la casa dei genitori di Sara. E con il Motorola morto non poteva neanche chiamarla perché gli andasse in soccorso. A Enrico non rimaneva altro che rimettersi in moto e ritornare a cercare la casetta immersa nel grano e nei girasoli.
Ma, dopo un breve tragitto, di nuovo quella sensazione di dejà vu: sulla destra, tra gli alberi, una chiesa. Enrico non poté trattenersi: seguendo il sentiero che partiva dalla strada, raggiunse il complesso formato dalla chiesa e da un caseggiato al suo fianco. Per fortuna aveva con sé la macchina fotografica. Girò intorno scattando fotografie per venti minuti prima di provare a entrare in chiesa, ma era chiusa.
“Ma dove diavolo l’ho già vista? Non è possibile che io ci sia già stato, ne sono certo. Non ricordo di essere mai stato da queste parti.”
Da bambino? Forse. Se era un ricordo, era un ricordo molto vecchio. Gli scorrevano davanti agli occhi immagini sbiadite, come quelle di un vecchio film.
“Oddio, non è possibile. Ma questa è…”
“La casa dalle finestre che ridono”
Avrebbe riconosciuto quel tono canzonatorio ovunque, anche ad occhi chiusi: Sara. Stava cercando San Giovanni in Triaro, e ci era letteralmente finito in braccio.
“Benarrivato Radeschi. Mi casa es tu casa.”
“Ma, tu abiti qui?”
“Ci sono cresciuta. Non in chiesa, ovviamente, ma nel caseggiato. I miei genitori sono i custodi.”
Enrico non potè fare a meno di pensare a come potesse essere cresciuta Sara, all’ombra di quella chiesa: la chiesa del dipinto di San Sebastiano del film di Pupi Avati “La casa dalle finestre che ridono”.
“Lo so, lo so. Ammetto che ha un aspetto inquietante, ma solo per il film, perché in realtà chi non lo ha mai visto non rimane così impressionato. Hai la faccia che hanno tutti quando scoprono dove sono cresciuta. Ormai vi leggo il fumetto sulla testa: come si cresce in un posto simile?… non lo so. Sapresti dirmelo tu R-A-D-E-S-C-H-I?”
Quella risata aveva sempre su Enrico l’effetto di un bagno nel fiume sotto una cascata.
“Colpito e affondato!”
Trascorsero il pomeriggio in visita guidata: la casa, la chiesa… manca solo il San Sebastiano di Legnani, ma la chiesa è lei. Anche all’interno. Riconoscibilissima.
E poi i campi, su cui si stesero a riposare.
“Minerbio è un posto strano. Inquietante. Aleggia un’atmosfera grigia, pesante, come se la gente avesse una maschera che toglie la notte. Di giorno banchieri, maestre, commercianti, assessori, impiegati… la notte anime inquietanti che nascondono segreti indicibili: una seconda vita che nessuno deve conoscere, anche se la vivono tutti. E tutto, lontano dagli occhi dei ragazzi: i giovani qui non hanno diritto a divertirsi. Non esistono locali per loro, non hanno spazi culturali, o anche soltanto di svago. Ma c’è un motivo… Vieni con me, ti faccio vedere un posto.”
In groppa al Giallone, Enrico prese la strada provinciale diretto verso il centro del paese, guidato dalle indicazioni di Sara. Cominciava a calare la sera, e, in effetti, non si incontravano molte anime in giro. Ma probabilmente era colpa dell’ora: anche se loro avevano perso il senso del tempo, per gli altri la vita scorreva ovviamente con i soliti ritmi, e alle nove di sera erano di sicuro tutti a cena, o davanti alle loro televisioni. Ma le parole di Sara avevano avuto effetto su Enrico, che già annusava odore di scoop.
Attraversarono la strada principale: da un lato i portici, i negozi, bar, ristoranti, il palazzo del Comune. Dal lato opposto alberi, una antica rocca purtroppo chiusa al pubblico se non per occasioni speciali e la chiesa. Poi Sara gli indicò una deviazione, che Enrico imboccò diligente. Si trovarono quasi subito in campagna: le luci che calavano per dare spazio alla sera regalavano al panorama campestre colori nuovi, che diventavano via via più affascinanti, fino a diventare inquietanti e lugubri.
Tra il nulla dei campi, le mura di un impianto che doveva essere la centrale di stoccaggio del metano, uno dei siti più grandi in Italia.
“Questa è Via Zena.” Sara gli stava indicando una casa colonica in mezzo alla campagna, che Enrico non riusciva a capire se fosse abbandonata o meno: non era proprio ben tenuta, e non c’erano segnali di un qualsiasi forma di vita. Non umana, almeno.
“Vedi questa casa? Quasi venti anni fa qui sono successe delle cose orribili.”
“Si, adesso mi parlerai del demonio e di sacrifici umani…”
Sara piantò i suoi occhi verdi nello sguardo perso di Enrico.
“Non scherzare su queste cose. In questa casa si riuniva una setta di devoti a Satana: nelle notti di plenilunio il “Maestro” e gli adepti si abbandonavano a stupri rituali, su ragazzine che trascinavano qui dopo averle drogate. Abusavano di loro a turno, o tutti insieme, intonando i loro macabri inni. Una di queste ragazzine, ormai totalmente soggiogata al loro volere, cominciò a prendere parte ai riti della setta. Arrivarono al punto di fare sacrifici sui bambini: un bimbo piccolissimo, di non più di 3 anni venne ripetutamente abusato, mentre lei gli teneva farmi i piedini. Sembra che la cuginetta, anche lei minorenne, lo portasse qui ogni volta che la setta lo richiedeva, e assisteva alla scena senza dir nulla.
Il povero bambino cominciò a dare strani segni in casa: ogni volta che gli si avvicinava il padre piangeva, rifiutava il cibo, era stranamente irrequieto. I genitori preoccupati si rivolsero a specialisti, che riscontrarono effettivamente quanto questi dicevano. Ma, non riuscendo a risolvere, decisero di portarlo da un esorcista. E così venne fuori tutta la storia, e l’intera banda fu sgominata”
Radeschi al racconto di Sara tornò ad essere assalito dai dejà vu: quella storia l’aveva già vista! La conosceva alla perfezione, come se l’avesse vissuta. Esattamente come gli era successo al castello, e alla vista della chiesa. Rimase in silenzio a lungo, mentre Sara aggiungeva particolari macabri al racconto: le violenze venivano inflitte al povero bambino su una specie di altare, dove erano i resti di una donna il cui corpo era stato trafugato da chissà quale cimitero tempo addietro…
“Ma questa è la storia dei Bambini di Satana!”
Esplose sollevato Enrico.
“Sara, questa è la più grossa bufala che mente umana abbia mai architettato! È una storia totalmente inventata che ha portato in galera quattro innocenti per nulla. Marco Dimitri, il presidente dei Bambini di Satana ha addirittura tentato il suicidio in preda alla depressione che questa storia gli aveva procurato. Tutto frutto di fantasia: della ragazzina che ha raccontato per prima dello stupro rituale, del magistrato che ha avviato l’inchiesta, dell’esorcista che ha “visitato” il bambino: I giornali, poi ci hanno ricamato su diffondendo qualsiasi cazzata venisse sparata da chicchessia. Marco Dimitri e la sua “banda”, come la chiami tu, sono stati pienamente scagionati senza la minima ombra di dubbio: questo perché le indagini hanno rivelato che non era successo assolutamente nulla di tutto quello che era stato raccontato.”
Di nuovo quella risata fresca come una cascata in primavera.
“Lo so! Volevo solo capire se sei un bravo giornalista.”
E gli stampò un bacio sulla guancia, in equilibrio incerto sul Giallone.
“E tu sei un’ ottima attrice”