Per l’uscita del nuovo libro intitolato Il lottatore di sumo che non diventava grosso, Eric Emmanuel Schmitt ,scrittore e drammaturgo francese ,già autore di romanzi tra cui spiccano Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano e Odette Toulemonde et autres histoires ( da cui poi avrebbe preso vita il film “Lezioni di felicità”, diretto dallo stesso Schmitt), ha iniziato un tour in Italia.
MilanoNera lo ha intervistato.
Il suo nuovo romanzo Il lottatore di sumo che non diventava grosso parla del rapporto quasi padre-figlio tra un quindicenne che vagabonda per Tokyo e un maestro di sumo: la scelta di un paese orientale per ambientare la vicenda è dovuta a qualche motivo in particolare?
Ho conosciuto il Giappone durante la rappresentazione di alcune mie piece teatrali e l’ho subito amato.
La storia si svolge in Giappone e ci sono molti elementi del Giappone, c’è il giardino zen, la scuola di sumo, l’orgoglio tutto giapponese che poi è lo stesso del giovane Juno.
Nel contempo però la storia di Juno è quella di un adolescente universale che può essere di qualunque paese, un adolescente in rottura con la sua famiglia e con la scuola, non cerca il supporto all’interno della società ma che volentieri se ne tiene ai margini.
La storia ha inizio quando l’adolescente comincia a rivolgere su di se tutta questa violenza.
Per me è un romanzo per metà giapponese, per il quadro generale e la metafora che esprime, ma anche universale per la problematica umana trattata.
Il messaggio di fondo è dunque di carattere filosofico e religioso: quale è stato il primo approccio che lei ha avuto con la filosofia, quale filosofo ha particolarmente apprezzato, a che età si è avvicinato alla filosofia?
Che rapporto, secondo lei, ci deve essere tra la filosofia e l’umanità, considerando che lo spazio dedicatole nella vita di ognuno di noi, tra tecnologia e mass-media, si è drasticamente ridotto?
Quanto tempo l’uomo dovrebbe dedicare alla filosofia?
Non avrei potuto vivere senza la filosofia; anche da bambino la incontrai senza rendermene conto.
Da bambino amai Alice nel paese delle Meraviglie di Carroll e Il piccolo Principe di Saint-Exupery, entrambe favole filosofiche.
Ho deciso però di dedicarmi alla studio della filosofia nel momento in cui sentì la necessità di questa per la mia costruzione intellettuale, perché avevo bisogno di lottare contro la mia personale ipersensibilità, un’ipersensibilità che avrebbe potuto distruggermi ,tanto ero invaso dagli stati d’animo; quindi avevo bisogno di un contrappeso e questo era la filosofia.
La filosofia noi la facciamo da mattino a sera, senza neanche rendercene conto.
Noi affrontiamo questioni filosofiche senza sapere che lo stiamo facendo.
Ogni giorno ci chiediamo perché facciamo una certa cosa,in un certo modo, che senso hanno la morte ,la vita, la malattia, la nascita ,le relazioni umane, e questo accade davvero tutti i giorni.
Per questo ho scelto di fare filosofia in romanzi ,piece teatrali, racconti; proprio perché sono scritti che riproducono la vita, dei personaggi veri in carne ed ossa in emozioni e situazioni.
Per me il miglior supporto alla filosofia è la finzione, proprio perché la finzione riproduce la vita, paradossalmente.
Cosa la spinge in generale, a preferire la stesura di una piece teatrale anziché un romanzo? E’ una scelta dettata solo da esigenze tecniche o ci sono motivi di altro tipo?
Quando il soggetto arriva, il soggetto comanda e che si impone a me sotto forma di romanzo o pièce teatrale; io non faccio altro che obbedire, che mettermi al servizio del soggetto.
Se ci rifletto un attimo mi rendo conto che scrivo per il teatro quando il soggetto ha una crisi, di qualunque genere, coniugale, spirituale, amorosa.
Tutto il mio teatro è un teatro di crisi, perché a teatro non esiste il tempo, la durata non ha spessore sulla scena, quindi posso esporre una crisi e mostrare come eventualmente si può dipanare.
Al contrario, nei romanzi ,tengo conto del tempo, della durata, delle settimane e dei mesi che permettono ad un soggetto di ricostruirsi, di cicatrizzarsi, di diventare qualcos’altro; il romanzo ha la struttura dell’iniziazione, vale a dire che c’è un dato personaggio che in un certo modo supera una determinata crisi e alla fine è diventato qualcosa di diverso da prima.
Quindi ,probabilmente, il mio romanzo, all’arrivo, più ottimista di quanto non sia la piece teatrale che è un coltello piantato nella ferita.
Nel romanzo invece, la ferita ha il tempo di sanarsi.
A quale sua opera o suo personaggio è particolarmente affezionato?
Ci sono due opere che ho scritto senza quasi rendermene conto,in pochissimi giorni, stando seduto al tavolo.
Non avrei mai immaginato che potessero raggiungere tanto successo ed essere conosciute in tutto il mondo.
Sto parlando di Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano e Oscar e la Dama in rosa.
Non mi sono proprio reso conto di scriverli perché erano già dentro di me.
Ho avuto piuttosto l’impressione di essere lì soltanto per trasferirle sulla carta,come se fosse tutto normale, come un melo che produce le mele.
Sono due storie che sono uscite da me quasi inconsciamente.
Dall’altra parte c’è un’opera che mi ha richiesto un grande lavoro di elaborazione, ed è un’opera che io apprezzo moltissimo, e che è quella a cui si pensa subito in Francia quando si fa il mio nome, e che è il romanzo su Adolf Hitler, un romanzo nel quale racconto le due vite di Hitler; la vita dell’Hitler reale, quello vero, quello che non è riuscito ad entrare nell’accademia delle belle arti ,che ha fatto il barbone, che poi è diventato ,che poi è diventato soldato ed infine dittatore.
E dell’altro Hitler, quello che io chiamo Adolf H., che invece entra nell’accademia delle belle arti, e che diventa pittore e che riuscirà ad atterrare in quel ventesimo secolo che invece il dittatore non ha conosciuto.
Questo è stato dunque un libro che ha richiesto molto lavoro e molta riflessione da parte mia, un libro che rappresenta l’altra faccia della mia opera, che da una parte ha il signor Ibrahim e i fiori del Corano, quindi tutta una soluzione emozionale, dall’altra parte invece una vera e propria macchina intellettuale, un vero dispositivo filosofico che mi permette di parlare del male.
Perché ha scelto di scrivere?Perché ,in generale ,si sente ancora l’esigenza di scrivere?
Credo di non aver mai deciso di scrivere ,quello che volevo fare da ragazzo era il compositore , dedicarmi alla musica, e infatti ho fatto anche studi di questo genere in adolescenza.
Però ad un certo punto ho avuto l’impressione di aver accettato un dono,quello della scrittura.
Ancora oggi però darei un occhio della testa per poter scrivere un pezzo di Mozart o un Valzer di Strauss; sono ,direi , uno scrittore con in sé la nostalgia per la musica.
Perché scrivo ? Perché per me è un modo per aiutare l’altro a costruire sé stesso, è un modo per dargli lo strumento umano ed emotivo per ricostruirsi ,per dare al lettore tutto l’aiuto che serve per ricostruirsi interamente.
In generale si scrive perché il libro ,secondo me, ti da la possibilità di consolare, di dare gioie , ti consente di evolvere ,di cicatrizzare.
Il libro è al contempo terapia e filosofia.
Quali consigli dà agli scrittori emergenti?
A chi vuole scrivere io consiglio di esercitare il proprio spirito critico prima o dopo ma non durante il sacro momento della scrittura.
In quel momento, ciò che è realmente necessario è lasciarsi andare ,lasciare che tutte le idee o le formule soggiungano alla mente, lasciare che l’opera si costruisca da sé.
Dopo possiamo esercitare il nostro spirito critico ad esempio per fare correzioni.
Bisogna smettere di esercitare anche il buon gusto quando si scrive, perché c’è sempre tempo per farlo dopo la scrittura.
Il momento della scrittura deve essere un momento di grande innocenza e di ignoranza, e bisogna lasciare che in questo momento passi attraverso la penna una storia che va ben oltre noi stessi.
Regia e sceneggiatura: Orson Welles. Interpreti: Charlton Heston, Orson Welles, Janet Leight, Joseph Calleia, Akim Tamiroff, Marlene Dietrich, Zsa Zsa Gabor. USA, 1958, b/n, 93’