Bisogna aspettare il 2007 perchè Pupi Avati diriga un film teso e angosciante come Il nascondiglio – The hideout. La pellicola fu girata in interni a Cinecittà, e in esterni, ancora una volta, a Davenport, nello stato americano dell’Iowa, separatamente e senza che organicità e fluidità della storia ne risentano.
Dimessa da una clinica psichiatrica dopo un ricovero durato ben quindici anni, causato dal suicidio del marito, Francesca, una donna di origini italiane, torna a Davenport. Lì vorrebbe aprire un ristorante di specialità italiane e, soprattutto, trovare la tomba del marito. Un sollecito agente immobiliare, partecipe delle difficoltà di Francesca, le prospetta il conveniente affitto di un edificio isolato chiamata ‟Snakes Hall”, perché in origine dimora di un allevatore di serpenti, necessari alla produzione di antidoti e vaccini. Lei accetta la proposta ma, poco a poco, scopre dettagli tenebrosi sulla storia della casa. Cinquant’anni prima essa era infatti residenza di alcune suore e il ricovero di anziane ospiti, assistite da un paio di novizie. Durante una notte di tempesta, a pochi giorni dal Natale del 1957, le due giovani massacrarono tutte le donne e scomparvero nel nulla.
Rumori sinistri, vocine sussurranti, scricchiolii, telefoni che squillano nel silenzio, un reticolo di tunnel angusti come budelli che collegano tutta la casa, sbriciolano rapidamente il precario e fragile equilibrio mentale di Francesca, mentre la locale comunità la esorta neanche tanto velatamente a disinteressarsi del passato, ricorrendo ai mezzi più cinici e spietati. Schiacciata dall’ossessione di scoprire la verità, la donna pagherà personalmente il prezzo di aver scacciato dal proprio nascondiglio una presenza malefica imprevedibile e non per questo meno reale e pericolosa.
La cifra stilistica del film è nel ritornello martellante di una canzone malinconica come Magic moments, successo del cantante Perry Como che risale proprio agli anni del massacro alla “Snakes Hall”. Nel prologo, la suona al pianoforte una delle converse, poi lo canta uno dei pazienti in occasione della festicciola organizzata nell’ospedale quando Francesca viene dimessa e, infine, lo canticchia la novizia assassina superstite, come macabra ninna nanna al cadavere dell’altra ragazza, che porta con sé come uno zaino per i cunicoli della sinistra residenza. Un contrasto voluto fra la violenta tensione delle scene e l’innocenza apparente di certi simboli, come un innocuo uovo di legno che scivola dal cestino del cucito e rotola per le scale. Pure ricorrendo ai consueti archetipi del terrore cinematografico, come la minaccia di una presenza minacciosa e invisibile, e malgrado ciò vicinissima (un ascensore fermo da decenni che comincia a sferragliare, grate di ferro battuto nascoste dalla carta da parati che permettono di accedere a un labirinto di cunicoli), Pupi Avati infonde un marchio personale e inconfondibile alla pellicola. Niente finali aperti ed elucubrazioni esoteriche, qui la soluzione dell’enigma è chiara, sebbene l’ultima sequenza lasci irrisolto il destino dell’assassina superstite. Laura Morante è abile a calarsi in un personaggio incapace di distinguere il rimorso dal rimpianto, mentre Rita Tushingham (unica testimone, seppure a distanza, del lontano eccidio del 1957) e Burt Young (l’agente immobiliare, forse invaghito della sua cliente) sono ambigui come richiede il loro ruolo. Una sceneggiatura lineare, quella che s’intuisce dalle immagini, in cui Francesca segue le orme infauste dei suoi più famosi predecessori nella filmografia avatiana come il restauratore Stefano della Casa dalle finestre che ridono e l’omonimo scrittore di Zeder.
Pupi Avati, fra la Via Emilia e il Midwest, continua…