Esce oggi per i tipi di Neri Pozza Morte di una sirena, che ha riscosso molto successo all’estero e che vede come protagonista nelle vesti di investigatore il celeberrimo scrittore di favole Hans Christian Andersen. Abbiamo rivolto qualche domanda a Thomas Rydahl che firma il libro con A. J. Kazinski, pseudonimo dietro il quale si celano ben due autori, Anders Rønnow Klarlund e Jacob Weinreich.
Partiamo dall’inizio, come è nata l’idea del libro, perché avete scelto Hans Christian Andersen come protagonista e come mai tre autori per un libro?
Sai, solitamente il lavoro dello scrittore è molto solitario ma poi ,quando vai a qualche festival letterario, incontri altri autori e colleghi e hai l’occasione per confrontarti e scambiare idee. Parlando con i due autori che si nascondono dietro lo pseudonimo di Kazinsky abbiamo scoperto di avere molte cose in comune, la stessa idea di scrittura, di dove la letteratura stia andando e di quale sia la natura di una buona storia. Così è nato il progetto di fare qualcosa insieme e abbiamo iniziato a cercare di trovare una buona intuizione per un libro. Abbiamo avuto anche un sacco di pessime idee…(ride ndr,) ma poi all’improvviso, mentre eravamo in una casa di vacanza nel sud della Danimarca non lontano da dove nacque Hans Christian Andersen, uno di noi tre ha detto: e se Andersen fosse una vittima? Abbiamo iniziato a ridere, pensavamo fosse un’idea folle. Però continuavamo a ripensarci perché c’era qualcosa che ci intrigava. Dovete sapere che in Danimarca quasi tutti di Andersen conoscono non solo le favole, ma anche il suo aspetto fisico, come parlava e come camminava. Ci piaceva l’idea di entrare in profondità nel suo personaggio, di indagare la sua personalità, capire come fosse e immaginare come avrebbe agito se si fosse dovuto improvvisare detective. Così è nato il libro.
Come vi siete divisi il lavoro?
Subito dopo avere avuto l’idea, abbiamo iniziato fare ricerche e per prima cosa abbiamo deciso che avremmo ambientato la storia nel biennio 1834/35 perché avevamo scoperto che c’era un buco temporale nel suo diario proprio in corrispondenza di quegli anni che coincidevano anche con un momento di profonda crisi della sua carriera di scrittore. Quindi, partendo da questi presupposti, abbiamo iniziato insieme a sviluppare la storia. Abbiamo fatto una scaletta, scrivendo capitolo per capitolo cosa sarebbe successo. Poi abbiamo steso una prima versione, che è stata poi rivista, ma fondamentalmente ognuno scriveva separatamente e poi ci confrontavamo.
Avete letto tutti i lavori di Andersen, non solo le favole?
In Danimarca c’è molta letteratura su Andersen. Molto probabilmente è il personaggio danese sul quale sono state scritte più biografie. C’è moltissimo materiale e abbiamo cercate di leggerne il più possibile, inclusi i libri che Andersen scrisse su se stesso. Allo stesso tempo però abbiamo cercato di creare una nostra versione del personaggio, così da costruire una figura letteraria.
Leggendo i suoi scritti e il suo diario, avete scoperto qualcosa di Andersen che poi non avete usato nel libro?
In Danimarca ci sono storie e voci riguardo la sua sessualità, si discute se fosse omosessuale o no.
Noi abbiamo deciso di descriverlo come un “indeciso”, di farlo un po’ più moderno di quanto in realtà potesse esserlo a quei tempi. L’Hans Christian Andersen del libro è la nostra versione. Per certi versi potremmo dire che Andersen fu la prima star di un reality. Il suo più grande desiderio era di essere famoso e conosciuto in tutto il mondo.
Andersen si sentiva sempre fuori posto, non capito e non accettato. È forse Il brutto anatroccolo della sua favola?
Credo che Andersen fosse bravissimo anche e soprattutto a raccontare la propria storia personale. Un ragazzino povero e solitario che cerca di farsi strada verso la ricchezza e la notorietà. E alla fine ci riuscì, diventando una delle persone più ricche della Danimarca. Comunque, sì, un elemento di verità c’è in quello che dici. Anche se, leggendo attentamente la sua biografia forse non tutto è davvero così tragico come lo raccontava, ma lo è certamente nella sua versione.
Oggi diremmo che era vittima di bullismo?
Sì, questa è una delle storie della sua infanzia che raccontava più spesso, di come fosse bullizzato e trattato come uno “strano”. E in effetti veniva considerato un tipo un po’ fuori dal normale. Secondo molte fonti aveva atteggiamenti bizzarri e questo è uno dei motivi per cui attirò l’attenzione di alcuni personaggi della Copenaghen “bene” del tempo, che lo invitavano nei loro salotti e gli fornirono anche un’educazione. Potremmo dire che ispirava un po’ di pietà anche se in verità intuivano che avesse del talento, anche se ancora non era chiaro in cosa consistesse e in che campo si sarebbe manifestato. Dietro il suo ossessivo desiderio di notorietà intravedevano qualcosa, e questo è uno degli aspetti di Andersen che abbiamo cercato di descrivere nel libro: la tristezza e la malinconia derivanti dall’insuccesso della sua carriera letteraria.
Il suo essere disperato era un buon punto da usare nella nostra storia. L’inizio del libro coincide con il suo ritorno da un viaggio in Italia che lo vede abbattuto e deciso a non scrivere mai più.
Quando nel libro gli suggeriscono di abbandonare poesia e testi teatrali e di dedicarsi alle favole, lui non la prende bene. Considera le favole un ripiego e poi dice che non gli piacciono i bambini e che a loro non piace lui perché lo trovano “mostruoso”.
Sì, secondo molte fonti pare non si trovasse a suo agio con i bambini, però allo stesso tempo teneva dei reading per i più piccoli, leggendo le favole che aveva scritto e saggiandone le reazioni.
In un certo senso penso che lui stesso fosse un bambino. Penso che la sua paura fosse dovuta alla sua fragilità. Era un tipo che poteva essere facilmente intimidito sia dagli adulti che dai bambini.
Pensi che favole e crime stories siano strettamente collegate? In fondo entrambe raccontano la lotta tra bene e male, con un ordine da ristabilire…
Bella domanda. Forse le storie gialle, criminali, hanno preso il posto che una volta avevano le favole. Ai tempi le favole erano il mezzo migliore e più conosciuto per raccontare storie. Andersen e i fratelli Grimm sono stati quelli che più di tutti si sono appropriati di questo mezzo cambiandolo e rinnovandolo, e questo è uno dei motivi per cui ci piaceva così tanto l’idea di usare Andersen come protagonista del libro. Alcune delle sue favole sono ispirate a altre favole, La Sirenetta per esempio a una italiana, ma lui ci ha aggiunto il suo tocco unico, originale e personale.
Mi piace pensare di aver scritto la storia come l’avrebbe scritta lui oggi. Le sue favole sono molto dark, con molte cose di difficile comprensione, quasi soprannaturali, specialmente nelle versioni originali che però sono poco lette, dato che si preferisce la versione più soft.
In effetti, le fiabe originali non sono proprio adatte a dei bambini, cosa che dicevano anche ai tempi, dato che erano troppo raccapriccianti e cupe, insomma c’erano anche dei morti. Cosa che succede anche nelle versioni originali dei fratelli Grimm. Credo però che i bambini amassero queste storie che parlavano di male e di oscurità. Erano pedagogiche, contenevano una morale da comprendere o insegnare. E proprio l’oscurità e l’esplorazione di mondi poco conosciuti erano ciò che ispirava Andersen.
C’è una frase nel libro in cui Andersen dice che uno degli svantaggi di essere uno scrittore e cioè che si è troppo legati a ogni singolo dettaglio e si è schiavi della bellezza. È vero anche per te?
Ognuno di noi tre, scrivendo il libro, si è sentito molto vicino a Hans Christian Andersen anche se in modi diversi. Fin da bambino la scrittura è stata per me un modo per evadere, il mio piccolo mondo meraviglioso in cui rifugiarmi e in questo mi sono immedesimato in Andersen, che usava la scrittura e le favole come un mondo dove nascondersi. E anche nel suo modo particolare di guardare la natura intorno a sé, gli oggetti, di immaginarne la vita e di proiettare le sue esperienze personali su quegli oggetti che rendeva protagonisti dei suoi scritti.
Leggendo il libro scoprirai l’abilità di Andersen di comunicare con gli oggetti, di renderli vivi: diciamo che è una specie di superpotere. Andersen è stato il primo a dare voce a cose e animali, a creare un loro mondo. Per esempio, Toy Story, il film della Disney, è un esempio perfetto dell’eredità del pensiero di Andersen: quando gli adulti non ci sono, i giocattoli prendono vita. E lui ha scritto parecchio su questo tema.
Qual è la tua favola preferita?
Uh, bella domanda. Ce n’è una che ho riletto davvero molte volte perché non riuscivo a capire fino in fondo cosa succedesse realmente. Mi riferisco a L’usignolo che è anche una delle favole che avevamo pensato di usare in questo primo libro. Abbiamo in animo di scrivere più libri con Andersen protagonista e L’usignolo è una storia che ci appassiona perché è molto particolare e contiene molte riflessioni adatte al tempo che stiamo vivendo ora. Parla di intelligenza artificiale e della relazione tra reale e irreale. È molto strana e anche particolare perché racconta della Cina che è un posto dove Andersen non è mai stato ed è parecchio “impopolare” scrivere di posti che non conosci per nulla, in cui non sei mai stato. E, in effetti, lui ha parecchie idee di come fosse la vita in Cina che sono decisamente sbagliate. È una favola molto interessante anche perché è decisamente in pieno stile Andersen e forse una delle sue più originali.
Perché credi che le crime stories riscuotano così tanto successo?
Credo che siano ormai diventate un archetipo, il modo migliore per descrivere la nostra società. C’è un patto tra l’autore e il lettore: sai di cosa tratta e dove sta andando, un po’ come nelle favole. E come le fiabe, le storie crime ti portano in mondi sconosciuti, ti fanno esplorare zone nuove, a volte anche oscure. È un viaggio in noi stessi e anche in altre personalità, a volte disturbate. In fondo questo è il motivo fondamentale per cui leggiamo: andare in posti che non conosciamo. Questo fanno i buoni libri: ti portano in posti nuovi, a volte bui e pericolosi, e poi ti riportano indietro, magari più saggio di prima. I buoni libri ti fanno commuovere, ridere, piangere, ti fanno provare emozioni. E questa è anche una gioia per l’autore.
MilanoNera ringrazia Thomas Rydhak e Neri Pozza per la disponibilità