L’Essere umano si racconta. Prerogativa dell’animale pensante è il suo linguaggio articolato, che si dipana in un continuo ampliarsi del suo vissuto attraverso la parola, il narrare, il raccontarsi. Memoria, attenzione, abilità di usare segni fonetici tramite i quali comporre suoni orali che racchiudono concetti, descrivono la realtà del suo esistere, del suo vivere, costituiscono la sua abilità distintiva, ciò che lo fa essere qualcosa di più di uno scimpanzé, per quanto resti cugino di un primate al quale costantemente, da Darwin in poi, si trova ad essere imparentato. I suoni che produce sono diventati segni grafici, e la sua possibilità di far sopravvivere il suo racconto è diventato eterno, tramandabile ai posteri. L’essere umano, la persona, allora si racconta come per lasciare un segno della sua presenza nel mondo. Il ragno al quale si nega la possibilità di tessere la sua tela muore, l’uccello al quale vengono tarpate le ali smette di accoppiarsi e di riprodursi. Una persona, se non trova il suo spazio nel raccontarsi all’altro, al mondo, perde il senso del suo esistere e la sua vita diventa vuota.
Cresciamo ascoltando i racconti che si tramandano di generazione in generazione. Il bambino chiede di ascoltare sempre la stessa favola dal suo genitore, e in una storia che si ripete trova una certezza necessaria per la sua crescita, una costante sulla quale costruirà la sua identità, insieme alla sua personalità che si esprimerà in un raccontare ad altri la propria storia, anche se nella veste di una favola o di un romanzo impersonale.
Ci raccontiamo, creiamo il nostro mito personale rivedendoci nella storia che abbiamo vissuto, e che viviamo giorno dopo giorno. Abbiamo bisogno di aver presente a noi stessi questo vissuto, in esso troviamo il senso per la nostra identità, ci ritroviamo in un passato che ci proietta nel nostro futuro, così eludiamo la caducità del momento, e il tempo si dilata oltre il presente, dandoci quella sensazione di infinto nel quale trovare la certezza della nostra originalità, della nostra unicità.
In principio era il verbo, come se tutto iniziasse con la nostra capacità di usare la parola. Il verbo coincide con il valore più alto, con il sacro. Attraverso la parola ci realizziamo nel rapporto con il prossimo, ci definiamo nella relazione, o almeno ci illudiamo di poter trovare un contatto con il necessario “altro” con il quale condividere il nostro essere “animale sociale”. Quotidianamente, incontriamo persone che come noi hanno bisogno di comunicare attraverso la parola. Allora ci raccontiamo: chi siamo, la parola che è il nostro nome, il nostro cognome. Possiamo definirci nell’attività grazie alla quale ci procuriamo da vivere. Più abbiamo chiara a noi stessi la storia che abbiamo alle spalle, più sicuri ci sentiamo nel vivere la relazione con l’altro, con chi ci può ascoltare, con chi ascoltiamo.
Più ci riconosciamo nel nostro vissuto, più ci viene da narrarlo, da ripeterlo a noi stessi, come un mantra che non si risolve in pochi versi, poche parole, ma che prosegue verso nuovi significati, verso rivisitazioni di quello che abbiamo vissuto. Narrarci, raccontarci, è necessario.
Imparando a scrivere, leggendo le storie che gli altri hanno raccontato, iniziamo a raccontare di noi, a metterlo nero su bianco, e iniziamo a cercare qualcuno che legga la nostra storia, che ci dia la soddisfazione di comprenderci nella nostra interezza, nella parte più complessa e completa che solo raccontando per iscritto riusciamo a far emergere. Possiamo usare personaggi immaginari, inventare storie lontane nel tempo, nel passato come nel futuro, ma comunque sempre di noi parleremo: madame Bovary c’est moi!
Oggi, più di ieri, si scrive. Spesso, molto spesso, si scrivono autobiografie. Da Sant’Agostino ad Henry Miller, dallo spirito atrabiliare di Rousseau alla lucidità mitteleuropea di Canetti, dal lirismo dei poeti illuminati alla staticità degli esistenzialisti, tutto viene raccontato, e tutto speriamo sia di noi letto. Certo, c’è sempre il sogno di gloria, c’è sempre il miraggio di venir riconosciuti da tutti come elemento che si distingue, che racconta meglio di tutti se stesso, che diventa capace di ispirare il prossimo a fare altrettanto. Di fatto, anche il grafomane più sprovveduto di principi stilistici, anche il meno portato all’eufuismo, anche chi non trova mai un lettore paziente capace di apprezzare quello che scrive, magari perché oggettivamente non c’è niente di bello in quello che scrive, anche lui si racconta, e non smette di scrivere, o forse continua a farlo mentalmente, senza concretizzarlo sulla carta, ma ha bisogno di farlo, ha bisogno di continuare a raccontare.
Si va in analisi, ci si sdraia su un lettino e ci si racconta, dal sogno notturno all’alterco con il nostro vicino di casa. Si scrive, si riempiono siti web con pagine scritte in Times New Roman o in Bookman Old Style. Si intasano gli uffici postali con manoscritti che piomberanno come macigni sulle scrivanie di editor storditi dal troppo leggere. “Ho scritto un romanzo”, “io scrivo”, “il mio hobby è la scrittura, la poesia”. Oggi più di ieri si scrive. Spesso, molto spesso, si vede in quest’attività solo l’eccesso di ambizione, la fuga narcisistica nel sogno di gloria di cui si è appena parlato. Perché non vederci anche un segno del progresso? Un’evoluzione verso un nuovo traguardo di civiltà?
Si parla ancora di analfabetismo, di analfabetismo di ritorno, ma non si parla mai del fatto che non ci sono più le percentuali statistiche di un tempo. Un secolo fa più del cinquanta per cento della popolazione non sapeva leggere e scrivere. Ci si ritrovava attorno al focolare, come le tribù delle popolazioni arcaiche, prive di linguaggio scritto, e ci si raccontava, fra parenti e amici. Oggi la gente ha imparato a leggere. L’incremento degli anni di obbligo scolastico, i media, la diffusione di carta stampata, internet e la e-mail che ci hanno riabituato a comunicare attraverso la forma epistolare, anche se digitalizzata, tutti questi fattori ci consegnano ad una moltitudine di scrittori, di poeti, o di gente che almeno aspira ad esprimere la profondità della sua anima attraverso un racconto suo, un racconto originale della propria vita. Un racconto scritto, non raccontato a voce davanti al focolare, un racconto che dal solipsismo di una testa china su una pagina bianca, su un monitor, aspira a rivelare i segreti di un’epoca vissuta in prima persona, come Omero raccontò l’universo di una cultura raccolta nella sua mente evocando le gesta di eroi imparentati con gli dei.
Allora troviamo insospettabili lavoratori con le dita sporche di inchiostro, non solo gli intellettuali, i letterati e gli addetti ai lavori, ma anche il cameriere, il muratore, il vicino di casa con cui abbiamo litigato per futili motivi. Ogni giorno, se entriamo in una relazione attenta con l’altro, scopriamo un vecchio che ha una mezza dozzina di manoscritti nel cassetto, giovani neoromantici che scrivono storie e versi sui muri delle città, anonimi poeti che lasciano malinconici o ironici haiku scritti con pennarelli indelebili sulle porte dei bagni pubblici, e anche adolescenti che non nascondono più il loro diario, ma lo condividono con quello degli altri, dei loro amici, o magari anche con sconosciuti incontrati in net work.
In un mondo complesso, pieno di contraddizioni, pieno di incongruenze e di relativismo, le persone si ritagliano il loro angolo di autenticità giocando con il computer, ma tenendo acceso il programma Word. E’ un bisogno, evidentemente, forse il modo più autentico per sentirsi se stessi, per sentirsi liberi. Ben venga allora lo scrivere! Immaginiamo un mondo dove due persone, conoscendosi, stringendo amicizia, o innamorandosi, arrivino presto, se non subito, a scambiarsi il manoscritto della loro autobiografia, un racconto scritto solo per farsi conoscere dall’altra: lo natura umana emergerebbe in tutta la sua sacralità, concretizzandosi in simili incontri, e forse inizierebbe davvero l’era dello spirito libero.