In occasione della proiezione de La terra dell’abbastanza al Premio Caligari 2018 durante il Noir in Festival, la redazione di Milano Nera ha avuto l’opportunità di avvicinare i registi Fabio e Damiano D’Innocenzo.
La vostra è stata una partenza “con il botto”. Avete ricevuto riconoscimenti prestigiosi come il Nastro d’Argento, siete stati notati al Sundance Festival e avete avviato collaborazioni importanti. Ma cosa significa essere degli esordienti nel panorama del cinema italiano?
Parli di esordienti nel panorama del cinema italiano, ma in realtà è una realtà molto circoscritta. Questo per me e mio fratello è un periodo molto fruttuoso ma pieno di pressioni che forse fanno parte del gioco. Un gioco di cui noi non conosciamo ancora le regole perché non abbiamo avuto una formazione normale e non sappiamo bene cosa aspettarci. I riconoscimenti fanno piacere, abbiamo fatto un buon primo film che ricorderemo sempre con grande affatto ma, sia nel presente che nel futuro, cercheremo sempre di avere le giuste proporzioni con la vita reale.
I due protagonisti Mirko e Manolo compiono una metamorfosi al contrario, da farfalle si trasformano in bruchi. Attraverso una pellicola ambientata in periferia siete riusciti a mostrare la decadenza civile e morale dell’Italia intera. C’è la possibilità che cambi qualcosa e qual è la funzione dell’arte in questo caso?
Abbiamo sempre immaginato La terra dell’abbastanza come un romanzo di formazione al contrario, un po’ come Alice nel Paese delle Meraviglie che, nella prima versione originale era Alice Underground, Alice Sottoterra, un titolo che aveva un impatto diverso e dava al lettore un’esperienza di lettura differente da quella attuale.
Rispetto alla decadenza civile e morale dell’Italia non abbiamo avuto mire precise, nel senso che tutti i colori e le sfumature presenti nel film li abbiamo mischiati inconsciamente. Se ci sono, ci sono anche perché non volevamo fare un film che dimostrasse una tesi precisa e poi quel genere di film si basano sempre su di una retorica molto poco interessante. È un po’ come quando ti innamori di una ragazza e scopri che è anche comunista, questo è un plusvalore, ma mai nessuno parte dal presupposto di innamorarsi di una ragazza comunista.
La terra dell’abbastanza è un noir che si inserisce a pieno titolo nelle nuove tendenze del cinema italiano di genere. Povertà e periferia, ma non proponete mai l’aspetto esaltante del crimine, molto spesso i reati messi in scena sono rappresentati al netto del loro squallore. Perché questa scelta?
Mio fratello e io siamo di Tor Bella Monaca, un contesto molto particolare di Roma. Non volevamo fare un film in cui il crimine rappresentato fosse patinato, glamour o in qualche modo invitante ma lo abbiamo reso per quello che è, per quello che sappiamo essere. Alcuni film di genere invece vanno della direzione opposta, enfatizzano e sfoggiano il vizio e la lussuria. Questo aspetto non ci interessava sia per la drammaturgia e per non rovinare il realismo della storia di Mirko e Manolo.
Nella vostra formazione da registi sono assenti scuole e titoli accademici ma avete girato un film che sembra essere il frutto di una lunga esperienza sul campo. Confessate: come avete fatto, qual è il vostro segreto?
Per rispondere, uso spesso questa immagine: puoi anche non saper guidare un’auto, però puoi fare il tragitto in taxi a patto che al conducente tu sappia dire in quale via e a quale numero civico arrivare. Ecco, il regista deve sapere esattamente dove arrivare e, per riuscirci, può e deve affidarsi a delle maestranze che siano degli “idoli feroci”. Abbiamo girato con la nostra squadra, li abbiamo scelti tutti noi per lavorare e lo stesso è successo con i maestri a cui ci ispiriamo, consci di rubacchiare un po’ quello che desideravamo. Noi è dall’età di dieci anni che scriviamo, disegniamo, facciamo fotografie e componiamo poesie, quindi è chiaro che abbiamo sempre perlustrato l’arte, il cinema è ciò che le accomuna tutte e quindi non potevamo fare un’altra scelta.
Avete conosciuto e collaborato con Matteo Garrone alla realizzazione di Dogman. Quanto è stata formativa per voi questa esperienza?
I passaggi fondamentali nella nostra crescita artistica sono stati l’incontro con Matteo Garrone, Valerio Binasco, Paul Thomas Anderson e Carlos Reygadas Castillo. Dei veri e propri maestri.
Ad esempio, da Matteo abbiamo imparato l’importanza della componente materica del creare un film, quell’impegno artigianale e spartano che predilige il concreto all’illusorio. Mentre collaboravamo con lui alla stesura della sceneggiatura di Dogman ripeteva spesso di fare scene che si possono realizzare, di non complicarsi la vita con universi paralleli e metafore.
Questo è stato un grandissimo insegnamento. Come la profondità e la ricchezza nel gusto del cibo “povero”, così è anche per un cinema che è economico, che raggiunge una sicurezza espressiva attraverso azioni quotidiane e senza giochi di prestigio spesso artefatti e poco interessanti.
MilanoNera ringrazia Fabio e Damiano D’Innocenzo. per la disponibilità.