A distanza di tanti anni si continua a parlare dell’Olocausto, com’è doveroso che sia. I testimoni, i sopravvissuti, i salvati come li avrebbe chiamati Primo Levi hanno, nel migliore dei casi, un’età molto avanzata. Quella generazione che ancora può raccontare e testimoniare per motivi anagrafici sta lentamente scomparendo, lasciando un’eredità importante ai propri figli.
Suzy Zail, l’autrice di La pianista di Auschwitz, ha scoperto da poco la storia di salvato di suo padre. È stato lui a raccontarla dopo la diagnosi di una malattia che gli avrebbe lasciato ancora poco tempo per vivere.
Dopo aver taciuto per quasi tutta la sua vita, l’urgenza del racconto si è manifestata in tutta la sua improcrastinabilità.
Senza voler indagare ulteriormente nelle vicende familiari e intime dell’autrice, come si può rispondere al silenzio che seguirà forzatamente il passaggio di una generazione?
Si può tornare ai classici o a quanto è stato scritto finora dai testimoni oppure si può inventare, tentando un approccio manzoniano tra ciò che è vero e ciò che è verosimile.
Si può scrivere allora un racconto, un romanzo attribuendogli la stessa funzione delle favole: ricordare che il lupo cattivo esiste, che la famiglia degli orchi non si è ancora estinta e che la Malvagia Strega dell’Ovest non ha ancora perso i suoi terribili poteri.
Tenendo bene a mente quanto scritto finora, La pianista di Auschwitz è un bel romanzo.
Protagonista una giovane pianista di 15 anni, Hanna Mendel che vive con il padre, la madre e la sorella Erika nel ghetto ungherese di Debrecen. Attraverso Hanna, i suoi ricordi e quello che gli accade il lettore rivivrà dall’inizio alla fine tutte le tappe della crescente persecuzione nei confronti del popolo ebraico.
La storia è ben nota. Dalla stella di David cucita sul petto fino ad un crescendo che porterà il padre a perdere il suo lavoro di orologiaio, la famiglia a vivere all’interno del ghetto e tutti gli ebrei ad essere emarginati. L’odio verso le ingiuste restrizioni non salverà nemmeno i Mendel dal viaggio allucinante all’interno dei vagoni merci verso il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Le due sorelle, forse ispirate ad Anne e Margot Frank, si ritrovano così, insieme alla madre, a vivere l’esperienza nel campo di concentramento e a fare i conti con la fame, il freddo, la brutalità del genere umano, l’annientamento.
Ciò che mi sembra contraddistinguere questo romanzo è proprio la forte volontà delle due sorelle di non farsi cancellare, di tentare in tutti i modi e con tutte le loro forze di mantenere la loro identità, nonostante tutto. «Sono ancora Hanna Mendel» ripete dentro di sé la giovane protagonista dopo il tatuaggio. O ancora «Il senso è rimanere degli esseri umani» dice Erika ad Hanna quando lei le chiede perché lavarsi. In un continuo incoraggiamento e scoraggiamento che le vede alternarsi per tutta la durata del romanzo.
Hanna sosterrà un’audizione per diventare la pianista di casa del Capitano Jager e la vincerà.
Potrà così lasciare il campo di concentramento dalla mattina fino alla sera, stare al caldo, mangiare un po’ di più. Avrà la possibilità di cambiarsi d’abito, di possedere un cappotto, forse di aiutare la sorella e la madre anche se questo vorrà dire separarsi da loro durante il giorno. Ma la casa del Capitano non è un posto sicuro e Hanna rischia non meno che nel campo di concentramento di venire assassinata. Inoltre è in un ambiente ignoto, da sola, vicino ad un pianoforte e al bel figlio del Capitano che non la degna di uno sguardo e che lei sente freddo ed ostile come il padre. Avrà la musica per compagna e i suoi sogni di quindicenne si risveglieranno, la sua passione per Clara Schumann e la sua storia – che Hanna vorrebbe ricalcare – si riaffacceranno alla sua memoria e il suo cuore di adolescente in crescita, nonostante tutto, inizierà a battere per la persona forse più sbagliata per lei e per la sorella ancora dentro il campo.
A dispetto dei temi trattati e dell’ambientazione, il libro di Suzy Zail, malgrado forse qualche ingenuità, racconta una storia che si legge volentieri. È un romanzo che si pone anche il compito di dare speranza, nonostante sia stato dedicato ai bambini che all’arrivo al campo venivano mandati a sinistra, verso le camere a gas.
L’autrice cerca, con timidezza forse, con rispetto sicuramente, di raccontare una possibile storia avvenuta in quelle terribili circostanze. Ha dato alla sua protagonista pochi ma essenziali elementi che la rendono cara al lettore, una ragazzina con una grande abilità nel pianoforte, un’autentica passione per la musica, un cuore pronto ad innamorarsi e una sorella che le starà vicina e che non la lascerà sola per quasi tutto l’internamento.
Le vere testimonianze provenienti dai lager lacerano dal dolore, ma questa storia è narrata e può essere letta con una leggerezza diversa.
La pianista di Auschwitz
Elena Zucconi