All’interno di una saletta sobria e tranquilla della libreria Open di Milano, la Mondadori ci dà l’opportunità di intervistare un grande giallista nostrano, Sandrone Dazieri. L’intervista si trasforma sin dalle prime battute in una chiacchierata tra amici, grazie a Sandrone che si dimostra un tipo socievole e alla mano, e riesce a mettere tutti a proprio agio.
Ciao Sandrone, nel libro “L’Angelo” si fanno riferimenti alla mafia russa e a Chernobyl. Alla fine del libro hai messo anche qualche link per invogliare il lettore a proseguire in modo autonomo la ricerca. Insomma raccontare storie per fare luce sugli eventi oscuri del nostro passato più recente può essere considerato un modo per fare informazione. Secondo te non va in contrasto con il mondo dell’informazione a cui siamo abituati, molto più leggero e di facile consumo?
Io francamente non mi pongo l’obbiettivo di fare informazione, anzi se possiamo vedere una tendenza nel giallo italiano, una grossa fetta dei miei colleghi si propone di costruire delle storie che siano strettamente attinenti alla realtà e romanzarle in modo tale che diventino di largo consumo. Il primo nome che mi viene in mente è Carlotto, ma anche Lucarelli ed altri che prendono dalla cronaca. Anche Romanzo Criminale, se vogliamo. Non faccio parte della categoria che cerca di trasmettere un racconto del presente com’è, come fossi un giornalista, perché questo non è il mio mestiere, e neanche di prendere il presente e romanzarlo.
Quello che mi interessa è raccontare la mia esperienza del presente e le mie sensazioni rispetto ad esso. Quindi voglio raccontare qualcosa della mia percezione del presente, che non è la stessa cosa che raccontare un fatto di cronaca e farlo diventare attuale. Per me il dato storico serve solo per supportare quella che è la mia ispirazione iniziale o il mio desiderio iniziale. Io sono partito dicendomi che in questo periodo storico in cui ne succede di ogni, nel quale ogni giorno in cui accendi la televisione e c’è un attentato, te la buttano sulla qualsiasi e si giustificano dicendo che siamo nell’era della post-verità, che non è altro che un modo paraculo per dire “balla”. E credo che sia mio compito di cittadino andare a cercare le mie risposte e le mie verità all’interno del mondo. Ma allo stesso tempo, sono anche sgomento, perché per quello che accade non riesco a trovare una spiegazione, e quindi cerco di mettere il lettore nella stessa situazione psicologica. Costruisco un attentato plausibile, faccio partire quella che è la canea dell’informazione classica e contemporaneamente invento un personaggio che mi rappresenta e che dice “andiamo a vedere nel mondo cos’altro c’è che potrebbe giustificare questo”, e proseguo con il discorso, ricorrente nei miei romanzi, che da un lato esplora quelle che sono le differenti percezioni del reale da parte del personaggio, e dall’altro racconta ciò che mi fa paura. Per esempio, il controllo dell’uomo sull’uomo, come nelle istituzioni totali e il controllo non solo delle informazioni, ma anche delle menti, che è un dato di fatto. Una cosa che colpisce andando a leggere dei saggi è che le tecniche di interrogatorio usate oggi dalle forze speciali americane sono mutuate dagli esperimenti che si facevano negli anni ’40 e che molti dei tedeschi che erano impiegati nei lager nazisti sono andati a lavorare per le industrie farmaceutiche americane. C’è una ricerca di specializzazione del controllo. Nel libro parlo anche del fenomeno di privatizzazione delle carceri. Gli stati Uniti stanno esportando un modello di carceri private nelle quali applicano tutto quello che si è imparato negli ultimi 100 anni. Il Vietnam, l’uso del LSD, gli interrogatori che la CIA usava per i suoi esperimenti, quello che hanno fatto nei campi di concentramento, insomma tutto questo è diventato parte del sistema di controllo della società di oggi. Volevo parlare anche di questo.
Dato che sono un giallista e devo scrivere un thriller, metto questa paura in forma di divertimento e di passione, e non cerco né di dare risposte né di dare lezioni. Se il mondo è bello o brutto, non lo so. Ci stanno mentendo o è tutto vero? Non so. Faccio dire al mio personaggio di andarvi a cercare le risposte.
Non cerco di rapportare la cronaca, ma solo la mia visione del mondo.
Sappiamo che oltre che scrivere romanzi, hai scritto per 8 anni la serie TV Romanzo Criminale. Cosa differisce nello sviluppo del personaggio in un romanzo o in una serie TV.
Teoricamente niente, il personaggio deve svilupparsi, cambiare in entrambi i mondi. Con il romanzo hai un vantaggio in più, puoi dare conto maggiormente del processo interiore. Voi sapete che una grande differenza è che il cinema o la TV hanno la pelle. Tu vedi quello che è in superficie, non quello che ha nella testa il personaggio. Esso si rileva attraverso le sue azioni e i dialoghi e il suo conflitto interiore si deve rilevare attraverso di queste. In un romanzo posso usare mille sfumature emotive in più, che nella dinamica di un film non hanno abbastanza spazio per essere resi al pubblico. È proprio una sintassi differente che ho imparato a mie spese con l’esperienza. All’inizio scrivevo una sceneggiatura come se scrivessi un romanzo, e non va bene, perché lo spettatore non vede la didascalia, la deve percepire. Non posso scrivere tizio è nervoso, devo dire cosa fa per esserlo. Un esempio che porto sempre ai miei allievi è questo: in una stanza, Sandrone sta parlando ed entra l’assassino. Sono due righe, ma in una sceneggiatura devo farlo capire che è l’assassino. Quindi faccio un flashback, dove faccio vedere la faccia di lui con lo sguardo carico d’odio. Oppure l’uomo puzzava da fare schifo. In una sceneggiatura qualcuno deve dire “come puzza”, perché nessuno sente l’odore. Invece in un libro hai tutti i sensi a disposizione. Un’ altra grande differenza è che nel romanzo sei il creatore e il proprietario del personaggio, mentre nella TV qualcuno lo deve indossare, dandogli la sua forma. Cambia tantissimo un personaggio da chi viene interpretato. Una delle grandi difficoltà di trasformare un romanzo in film o serie TV, sta nel fatto che ognuno di noi, leggendo il libro, si immagina il volto, il tono di voce, la posa dei vari personaggi. A noi sembra che Montalbano sia corrispondente a Zingaretti, ma in realtà è il contrario. Siamo noi che ci siamo adattati a Zingaretti, perché Montalbano era magro e con i baffi, e dopo aver visto Zingaretti è diventato lui anche quando leggiamo.
La potenza della letteratura è ancora superiore a qualsiasi altra forma, perché non è solo la testa di chi la produce, ma anche la testa di chi la consuma. Come tu leggi il libro, come tu ci ragioni, è una parte necessaria della lettura, senza di questo non c’è romanzo.
La privazione dell’infanzia è un tema ricorrente nella formazione di alcuni dei tuoi personaggi di primo piano, da dove nasce l’esperienza che hai avuto per poterli plasmare?
Nasce tutto dall’esperienza che ho fatto molto tempo fa, durante un viaggio in Somalia, facendo da testimonial per una raccolta di fondi per Medici senza Frontiere. La cosa che mi ha colpito che è che mi hanno mandato in un campo profughi tra due regioni della Somalia e li c’era una quantità immensa di bambini. La prima cosa a cui pensato è stata che erano bambini privati dell’infanzia. In realtà erano stati privati anche della vita, dato che in quel posto si moriva di varicella e l’aspettativa di vita era molto breve. Tutto quello che è il sottoprodotto della guerra, come i barconi che arrivano in Italia, è aldilà delle sofferenze di uomini e donne, è un modo per privare dell’infanzia i bambini. Esattamente come quelli che vengono mandati a combattere. Il bambino è un’arma perfetta. Piccolo, lo puoi manipolare facilmente, facilmente replicabile, costa poco e puoi dargli in mano un’arma che ammazza un adulto. Tutte le società totalitarie hanno lavorato sui bambini, proprio per renderli carne da cannone. Pensate al Fascismo o ai pionieri sovietici. In qualche modo la privazione dell’infanzia è un tema che ricorre nella guerra, nella distruzione di un ecosistema, nella mercificazione del corpo. È un tema molto forte che sento in maniera particolare, grazie al fatto di aver avuto un’infanzia difficile, ho la tendenza a parlare di queste cose. Mi viene naturale.
Come scegli i nomi per i tuoi personaggi?
I nomi li cambio spesso durante la stesura del romanzo. Tranne quelli importanti a cui penso a lungo, molto a lungo. La restante parte sono follower di Twitter o amici di Facebook. Mi è capitato anche con qualcuno della Mondadori. Infatti quando avviso una persona che il suo nome funziona e vorrei usarlo nel mio romanzo, di solito mi risponde “solo se sono l’eroe”. E io di rimando “Hahahaha impossibile! Sarai un matto che muore quasi subito…”
Due parole, personali, su Sandrone Dazieri. Durante l’intervista guardava l’interlocutore negli occhi, ma solo per il tempo della domanda. Mentre rispondeva i suoi occhi saettavano ovunque, questo lo fanno le persone che pensano molto a quello che stanno per dire. Si capiva che voleva trasmettere qualcosa di più di un mero dato o una semplice informazione. Voleva condividere quella che era la sua esperienza a riguardo di quell’argomento, e aveva a cuore che tutti nella sala ne potessero beneficiare. In una Italia dove molti scrittori fanno confusione tra VIP e celebrità, la semplicità e la schiettezza di Sandrone,unite alla sua sensibilità per le persone che lo circondano, e gli argomenti trattati, sono fuori dal coro. Aspetto con ansia il capitolo conclusivo delle gesta di Colomba e Dante.