Intervista a Marco Ciriello – Un giorno di questi

downloadQualche anno fa avevano preso piede questi blocchi a fisarmonica di venti o trenta cartoline. Andavi in edicola o nei chioschetti per souvenir e trovavi racchiuse in questi libricini tutti gli scorci più famosi della città in cui ti trovavi. Marco Ciriello nel suo Un giorno di questi (Rubbettino ed) ha fatto qualcosa di simile, solo che ha deciso di raccontare quello che i turisti si perdono. Nel suo romanzo, che è stato anche candidato allo Strega, il giornalista napoletano classe 1975 ha ripercorso una Napoli anni ’80 piena di sangue ma anche di bellezza. Una bellezza senza tempo dovuta ad una strana alchimia tutta napoletana: un insieme di rumore caloroso, di terra e mare, di scienza e spiritismo.
Napoli è un mondo a sé, resiste alla gentrificazione e agli incasellamenti, anche se è cambiata. “Napoli è diventata una città set cinematografico, è stata ripulita. Adesso è politicamente corretta anche nello spaccio e nel contrabbando. Ma quanto si sta spegnendo quella energia che l’ha animata negli anni della sua grandezza”, spiega Ciriello. Lui le strade della città partenopea le ha percorse in lungo e in largo per scrivere di cronaca su un giornale grande, come lo definirebbe nel suo libro.

C’è una nota molto malinconia in questa sua descrizione di Napoli…
La città del decennio Ottanta era grande in ogni sua espressione. Sia nel bene che nel male aveva delle forze rivoluzionari. Gli anni ’80 sono stati gli ultimi in cui Napoli è stata veramente potente. La città esprimeva  una forza culturale che oggi manca. Andy Warhol, grazie al gallerista Lucio Amelio, dal 1975 aveva iniziato a frequentare la città. C’erano Massimo Troisi, Pino Daniele e l’ultimo Eduardo (Ciriello lo chiama così Eduardo perché può essere solo lui: De Filippo, ndr). Avevi eccellenze che in ogni campo attingevano da Napoli. È impossibile pensare persino Diego Armando Maradona senza Napoli..

E c’era anche una camorra eccellente?
C’era una camorra spietata e dalla forza immaginativa esplosiva. Oggi persino la camorra è banale ed è di altri.

Lei invece l’ha descritta nel suo momento magico?
L’ho raccontata con tre figure sfavillanti del male anni ’80: Giuliano, Cutolo e Pupetta Maresca. Loro brillano, anche se nel male. Cutolo ha una forza immaginativa pari a quella di Pablo Escobar. Persino la Napoli camorristica esprimeva un luccichio che è scomparso.

A livello di forza immaginativa, chiariamo?
Sì, certo.

Il rimpianto verso la potenza degli anni ’80 lo riserva solo alla sua città?
No, l’Italia ha perso il suo vigore, ha perso l’energia. È un paese migliore, come la nuova Napoli politicamente corretta, ma non sprigiona più nulla. Gli anni ’80 invece avevano lo splendore della rabbia.

Ma c’erano anche la disillusione e l’eroina…
C’era un luogo che avrei voluto raccontare nel libro e rimpiango di averlo eliminato dal testo. Il Diamond Dogs era un locale in cui si faceva uso di eroina con un sottofondo di musica punk rock. Era un posto in c’erano tutte le illusioni di quel periodo, la grande droga e anche la gioventù che subiva l’onda nucleare e voleva farla finita. C’era questo nichilismo in quel posto.

12647424_1240155756001617_8164066237700396052_nLa sua è una Napoli in cui si aprono le porte al dolore e alla gioia. Come la madre di Musella, calciatore del Napoli, che apriva il portone al vicinato ogni volta che il figlio segnava un gol. Una metafora molto forte di come si vivono le emozioni ai piedi del Vesuvio?
Napoli è un mondo che non esiste più, ma non nella rivendicazione che fanno Pino Aprile e i neo borbonici. Bensì perché la capitale di un’umanità meravigliosa messa in secondo piano. Quell’aprire le porte appartiene allo spirito greco della città.

Quindi è un rituale vero?
Certo, avviene sia nel momento di festa che in quello di lutto. Sono quelli i due momenti in cui le porte partenopee si aprono. Quando il Napoli vinse lo scudetto a Forcella c’era una tavolata enorme che nemmeno Fellini poteva immaginare. Così come quando è morta Annalisa Durante (quattordicenne uccisa nel 2004 in uno scontro tra camorristi) ho visto una città dove tutto era aperto. Tutti sentivano di aver perso qualcosa: la gioventù.

Un modo per esorcizzare la morte?
Anche nella morte i napoletani hanno un rapporto di apertura verso l’altro. La felicità vissuta da soli non esiste, se non la si può condividere non la si sente. La stessa cosa vale per il dolore. È un momento che ha bisogno di spalle, di abbracci e quindi di porte aperte. Questa è l’umanità di Napoli.

Sì, tutto molto romantico. Però è la stessa città in cui si è così abituati alla morte che si getta distrattamente un secchio d’acqua per ripulire l’ennesima macchia di sangue dal marciapiedi.
Raccontiamo un posto in cui l’umanità vive in modo estremo – che credo sia l’unico modo di vivere sul serio – ed è quindi normale che ci sia anche il male. L’uomo che lava il marciapiedi non lo fa per abitudine al male, ma per scacciarlo. Cioè è successa una cosa terribile e c’è qualcuno pronto a sobbarcarsi il lavoro di pulire quella cosa orribile.

Quindi non è indifferenza?
Napoli non ha mai accettato il male. Il ministro Lunardi disse che con mafia e camorra bisogna convivere, ecco la città in vece ha sempre combattuto contro la malavita, contro se stessa e anche contro la sua parte bella. Però è sempre rimasto un luogo estremo che ha in sé anche questo male.

E nel libro racconti come lo abbia fatto con la sua ironia
I napoletani sono arrivati ad irridere il loro male e il loro bene. L’ironia della città è ciò che distrugge entrambi.

Da cronista di nera il Francesco Palmieri nel libro, come nella realtà, ha incrociato un omicidio che tutti ricordiamo di quegli anni: l’assassinio di Siani.
Lui è stato un compagno di strada. Alcuni lo hanno fatto diventare un super eroe, per me è rimasto un ragazzo. Questo ragazzo mi ha accompagnato e mi accompagna, quindi il fatto stesso che ci fosse stata un’indagine fatta da due abusivi, Francesco Palmieri e Carmine Spadafora, sull’uccisione di un altro abusivo mi è sembrato significativo.

Un requiem?
Volevo rendere omaggio a questi tre ragazzi che volevano raccontare Napoli. L’indagine di Palmieri e Spadafora che si discosta dalla versione ufficiale negli anni è stata dimenticata. E anche Giancarlo e il suo lavoro rischiavano la stessa sorte. Il suo è stato un lavoro pazzesco di indagine e di giornalismo di inchiesta in un’epoca difficile.

Quello di Ciriello è il racconto di un periodo in cui un guappo poteva arrivare in redazione a prendere a paccheri l’autore di un articolo non gradito. La sua città era però anche carica di vita e di una sensazione di leggerezza che andava al di là di ogni guaio, di ogni giornata buia. Ciriello ha raccontato la Napoli del misticismo, del sangue di San Gennaro e dei misteri del Principe di San Severo. Un intrecciarsi di morti, di riti e scaramanzia che non sono solo colore, è il volto nascosto dietro alla rappresentazione di Gomorra e della Vele.

MilanoNera ringrazia Marco Ciriello per la disponibilità.

Eleonora Aragona

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