Intervista a Gianluca Ferraris

downloadGianluca Ferraris nasce a Genova nel 1976; laureato in Scienze Politiche, vive a Milano e lavora come vice caposervizio nella redazione di Panorama, occupandosi soprattutto di inchieste su argomenti di scottante attualità. Gianluca affianca questa attività a quella di scrittore, che gli sta dando molte soddisfazioni.
Recentemente, è uscito per Novecento Editore il suo nuovo romanzo “A Milano nessuno è innocente”, un thriller indubbiamente avvincente che mette soprattutto in luce gli aspetti più negativi della “Milano dell’Expo”.

Gianluca, partiamo dal tuo nuovo libro, “A Milano nessuno è innocente”. Un titolo sicuramente “duro”, deciso, quasi una condanna senza appello. Ci vuoi spiegare in cosa consiste, per te, la “colpevolezza” di Milano e dei personaggi che hai costruito?
Il titolo voleva essere in parte un omaggio a Giorgio Scerbanenco e al suo “Tutti colpevoli”, che più di cinquant’anni fa aveva descritto una Milano molto diversa da quella di oggi eppure già in parte contagiata dagli stessi virus: arrivismo, individualismo, corruzione, caduta verticale dei valori morali, uniti a un certo senso di smarrimento che coglie sia i nativi che i foresti. I personaggi del romanzo si muovono in questo contesto e agiscono di conseguenza: ognuno coltiva il suo sogno più o meno a buon mercato, cerca il suo Lebensraum e spesso lo trova, ma è costretto quasi sempre a scendere a compromessi.

A proposito dei personaggi, quanto del tuo lavoro di giornalista d’inchiesta si riversa nei tuoi romanzi e, soprattutto, quanto c’è di Gianluca Ferraris in Gabriele Sarfatti, protagonista un po’ border line del tuo romanzo?
Non considero Gabriele Sarfatti un alter ego, se non nel significato originale del termine: qualcosa di “altro”, di diverso da me. A me sarebbe bastato un decimo delle cose che accadono al mio protagonista per restarci secco. Detto questo, ho cercato di seguire due regole auree: lo “scrivi soltanto di ciò che sai” coniato da John Steinbeck e la necessità di offrire al lettore spunti realistici. Un io narrante come quello del giornalista, con caratteristiche, tic e vizi molto contemporanei, mi pareva più credibile – e più libero di muoversi sulla scena – del classico investigatore tutto d’un pezzo. Del quale peraltro non posso conoscere in profondità il modo di pensare e agire.

Dipingi a tinte molto fosche la capitale del Nord, Milano, che pare essere diventata una succursale della ‘ndrangheta, forse addirittura la più redditizia. Purtroppo, non dobbiamo più stupirci di nulla – Mafia Capitale docet – ma tu ritieni veramente che il malaffare sia così radicato nella città che, nell’imminenza dell’Expo, dovrebbe rappresentare il meglio dell’Italia nel mondo?
Non è una mia impressione, purtroppo, ma il risultato di numerosissime indagini condotte in città dagli anni Ottanta a oggi. Indagini che raccontano come Milano sia diventata la meta principale per il riciclaggio di capitali mafiosi, in particolare quelli delle ‘ndrine calabresi, provenienti dai sequestri di persona prima e dal monopolio di fatto della cocaina dopo. Da una ventina d’anni il panorama è cambiato ulteriormente: la ‘ndrangheta si sporca sempre meno le mani con il business criminale, preferendo trasformarsi nel perno di un intreccio perverso tra politica, finanza e imprenditoria privata in difficoltà. Per quanto riguarda la trama, avevo bisogno di un’ambientazione milanese e di un humus che parlasse esattamente questo tipo di malaffare: il collegamento con l’Expo è stato quasi naturale, viste le tempistiche e visto che non ho dovuto inventarmi quasi nulla, purtroppo.

Questa è stata etichettata in tantissimi modi nel corso degli anni, ma senza dubbio la “Milano da bere” è la definizione più famosa e che ha sempre ottenuto più riscontri nella realtà. Tra le righe del tuo romanzo, però, pare di capire che questa caratteristica sia ormai sulla via del tramonto…È così? Milano, ormai, sarà principalmente solo la “Milano nera”?
Milano e i gialli moderni hanno anche questa caratteristica comune, in fondo: non esistono quasi più buoni e cattivi in senso assoluto, ma solo un’immensa zona grigia dove diventa difficile distinguere, scindere, interpretare. Chiariamoci: io amo questa città, che mi ha accolto e mi ha dato l’opportunità di realizzarmi, e la trovo molto più piacevole, viva e vivibile di quanto la trovino molti “immigrati” come me. Ma se pensiamo alla parabola attraversata da questa città a partire dagli anni Ottanta a oggi non possiamo nasconderci come quella zona grigia di cui parliamo abbia continuato a estendersi. Nonostante il ciclone Tangentopoli, come scrivo nel libro, i successivi 23 anni di giunte di ogni colore, dal verde all’arancio, non hanno alzato di un millimetro l’asticella della moralità da queste parti, anzi. Nel romanzo ho solo cercato di rendere al meglio, attraverso alcune riflessioni dei protagonisti, questo spaccato: non è cattivo cinismo ma semplice disillusione.

Allargando il discorso, ormai è evidente che viviamo in una società dominata dalla brama di successo, fama e ricchezza facile ad ogni costo, anche ricorrendo alla violenza. Alla luce anche della tua esperienza nella redazione di un grande periodico e delle tue inchieste giornalistiche, ritieni che il nostro Paese possa ancora, in qualche modo, recuperare un futuro di relativa “normalità”?
Ti devo rispondere seccamente: no. Questo è il Paese dei gattopardi e delle masse che, come diceva Churchill, non è impossibile governare, ma inutile. L’Italia è un posto meraviglioso che, salvo rarissime e lodevolissime eccezioni, sceglie di non fare i conti col proprio passato e di non disegnarsi un futuro. Continuiamo a vivere così, in un immutato autoreverse, in attesa di uno shock alla greca che forse al punto in cui siamo ci farebbe pure bene.

Abbiamo detto che tu sei un giornalista ed uno scrittore. Nei tuoi romanzi tratti sempre di rilevanti fatti di cronaca, affronti delle vere e proprie inchieste. Anche gli scrittori, facendo magari ricorso ad un’apparente finzione narrativa, possono contribuire a denunciare e smascherare ciò che non va nella realtà?
Non ho mai creduto fino in fondo a questa visione un po’ taumaturgica di gialli e noir, che essendo dei romanzi dovrebbero costituire soprattutto oggetto d’evasione. Ma anche la riflessione, in un Paese da sempre ricco di domande e povero di risposte, non è da buttare via. Ripeto: non si tratta di prendere un fatto di cronaca, o un quartiere di una città, o qualsiasi altra cosa, ed esaltarne il lato più cupo, più cinico, più “letterario”, né di utlizzare il noir come strumento di denuncia sociale. Ma è ovvio che se molti fenomeni criminali come il traffico di rifiuti, l’ascesa delle mafie al Nord o le cricche romane degli appalti sono stati recepiti meglio dal grande pubblico grazie a dei romanzi, la contaminazione tra realtà e fiction è in corso già da un bel pezzo. Sono gli scrittori e i lettori ad aver deciso che fosse questa la strada giusta. E francamente penso che sia un bene.

Del tuo romanzo ho apprezzato, tra l’altro, lo stile moderno ed anticonformista ed il lessico sciolto e colloquiale. Quanto influisce tutto ciò, secondo te, sul piacere di leggere?
Posso dirti che io mi sono divertito molto a scriverlo, molto di più che durante la stesura dei quattro libri precedenti, e che mi pare il risultato trasmetta questa leggerezza. I protagonisti di una narrazione che pretende di essere contemporanea dovrebbero calarsi nel contesto in cui vivono: quindi è ovvio che parlino, ragionino, mangino e agiscano in un certo modo. Nei bar e sui tram la gente non conversa come nei romanzi che vincono lo Strega: forse poi è per questo che non li compra.

Sei sicuramente un amante della musica… Tantissime, infatti, sono le citazioni musicali sparse qua e là tra le pagine del libro. Si può dire che hai voluto creare una colonna sonora del tuo romanzo?
Più che una colonna sonora, vorrei che la musica facesse parte del racconto, come fa parte della mia vita: forse è questa l’unica cosa esattamente sovrapponibile tra la mia vita e quella di Gabriele Sarfatti. La mia generazione è quella che ha avuto l’accesso più completo, quella che ha iniziato a scaricare musica in modo immateriale ma teneva ancora la testa a vinili e cd. La necessità di contemporaneità, quindi, non poteva farmi prescindere neanche da questo elemento. E poi è piacevole pensare che un lettore, magari incuiriosito da questo o quel dettaglio, possa andare a cercarsi alcune delle canzoni citate, che non sono tutte notissime.

Una domanda “originalissima”: quali libri non potrebbero mai mancare nella libreria di Gianluca Ferraris?
Sono un lettore onnivoro che vive di fasi alterne: le uniche cose di cui potrei fare davvero a meno nella mia libreria sono le inchieste fatte copiaincollando verbali, una cospicua fetta degli scrittori sudamericani, la letteratura erotica e quella in cui compaiano fate, elfi, maghetti, nanetti, vampiri e dimensioni parallele. Gialli e noir restano il genere che mi appassiona di più, da molto prima di dedicarmici come autore e anche se la domanda sui modelli è sempre scivolosa ti faccio tre nomi secchi: Giorgio Scerbanenco, Ed McBain e Massimo Carlotto.

 Ed ora, per concludere, possiamo sperare di rivedere presto all’opera Gabriele Sarfatti?
Prestissimo: tra pochi giorni, sempre per la collana Calibro9 di Novecento editore, sarà in libreria l’antologia “Genova criminale”. Assieme ai contributi di altri scrittori liguri c’è un mio racconto inedito, intitolato “Black”, che ha per protagonista proprio Sarfatti, in momentanea trasferta. Uno spinoff, come dicono quelli bravi. Sto già lavorando anche al prossimo romanzo, ma perché l’alchimia si ripeta devo trovare altre situazioni che colpiscano me, prima di un eventuale lettore. Fortunatamente gli spunti non mancano.

Gian Luca Antonio Lamborizio

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