Emilio De Marchi
Il cappello del prete
Edizioni Euridice
Centrotrentadue anni e non sentirli! Questo romanzo è il primo noir italiano. Pubblicato per la prima volta a puntate nel 1888 come romanzo d’appendice su un quotidiano, potrebbe essere stato scritto ieri.
È un noir molto “nero” che unisce lo stile vivace e beffardo della più autentica napoletanità a una trama perfetta nella sua architettura e molto attuale per gli argomenti sui quali si fonda: il gioco d’azzardo, i traffici finanziari truffaldini, la superstizione, l’avidità e naturalmente l’omicidio. II tutto in salsa partenopea, con l’ironia che pervade ogni parola.
Chi ha letto Demetrio Pianelli e Arabella, dello stesso autore, entrambi ambientati nell’ordinato grigiore della Milano impiegatizia, triste ma solida e rassicurante, faticherà a calarsi in quest’atmosfera scanzonata e feroce, colorata e disordinata cupa e per certi versi ingenua. Faticherà e si stupirà , perché a parte le carrozze a cavalli al posto delle automobili e la mancanza dei telefoni, tutto pare immutato. Ma è appunto questo che distingue i romanzi dei grandi narratori: la resistenza al tempo.
Il protagonista, il barone Carlo Coriolano di Santafusca, ultimo discendente di una nobile casata partenopea, collocato nell’oggi potrebbe essere l’erede debosciato di una dinastia di industriali. Un giovane viziato che non ha bisogno di lavorare per vivere e attinge con larghezza al patrimonio di famiglia accumulato nel corso di generazioni.
Dilapidare è un attimo: gioco, belle donne, vita sopra le righe…
Quando i debiti accumulati non sono più solvibili e “O barone” rischia il carcere, a meno che non s’inventi qualcosa di definitivo.
C’è solo una persona che può risolvere tutto e quella persona è il suo maggior creditore: Don Cirillo “O Prevete”, un prete usuraio che si è arricchito con il gioco del lotto e strangolando la povera gente. Uno che se lo ammazzi fai un ‘opera buona perché è un parassita e questa convinzione mette a tacere i sensi di colpa.
Basterebbe studiare un raggiro e poi… Ma don Cirillo è furbo. Sa che il barone è rovinato e medita a propria volta un imbroglio per levargli il palazzo di famiglia comprandolo per una somma ridicola.
Tutto sembra mettersi bene per il barone di Santafusca. L’ingordigia del prete è tale da non fargli subodorare il tranello. Peccato che il diavolo ci metta la coda. Anzi, il capello!
Un po’ Tomasi di Lampedusa nel racconto della molle aristocrazia del Sud, un po’ Dostoiewski nella narrazione dei tormenti autodistruttivi di un omicida trascinato alla rovina materiale e morale dopo una vita di vizi e di dissipazione, questo romanzo è una vera vera chicca. Un piccolo gioiello rimasto in fondo allo scrigno di un autore particolarmente rappresentativo di quella felice stagione letteraria tardo ottocentesca che ha visto grandi narratori .
Emilio De Marchi ha, rispetto a molti altri, una particolarità straordinaria in più : costringe letteralmente i lettori a calarsi di volta in volta in ambienti diversissimi fra loro, in città diverse e a seguire le vicende di protagonisti all’opposto, ma tutti ugualmente credibili nelle loro miserabili vite, non importa se piccolo borghesi o di alto profilo. Tutte ugualmente consumate dal più distruttivo dai mali : il troppo denaro o la sua mancanza.