Francis “Frank” Underwood è un politico americano che potrebbe dare lezioni di strategia e capacità mimetica a tutto il nostro arco costituzionale, da destra verso sinistra e ritorno. È un sincero democratico, capogruppo del suo partito al Congresso, ma al contempo è un autentico figlio di puttana che finirà, al termine della seconda stagione della serie di cui mi accingo a parlarvi, per essere eletto presidente degli Stati Uniti senza essere mai passato per nessuna candidatura e nessuna campagna elettorale. E tutto questo per non essere stato nominato segretario di stato dal presidente che ha contribuito a far eleggere… Che dite? Somiglia un po’ troppo alle vicende del nostro attuale presidente del Consiglio? In effetti non sbagliate. Frank ha dalla sua una spregiudicatezza senza pari, capace di passare sopra e sotto a qualunque cosa impedisca la realizzazione dei suoi schemi e disegni, omicidi compresi. Una moglie bellissima, cinica e scaltra almeno quanto lui, che lo asseconda in tutto quello che fa in nome di un amore totalizzante e malato, a capo di un’onlus che si occupa di acqua e di paesi africani e che nel primo episodio licenzia diciotto suoi collaboratori allo scopo di reclutare una ricercatrice utile alle mire espansionistiche della sua organizzazione nel continente nero. Ai suoi ordini, il nostro vanta colleghi di partito deboli, dediti ad alcool, droghe e puttane, ricattabili e sfruttabili, un segretario “molto” particolare, giornaliste ambiziose e senza scrupoli con le quali vive relazioni al limite del sadismo psicologico e fisico. Frank è Kevin Spacey, attore che sin dai tempi di “Se7en” ci ha abituati a performance di questo tipo, ma anche il cast che gli gira intorno nelle due serie sinora prodotte dalla piattaforma web Netflix (l’altra è “Orange is the new black”, thriller penitenziaro nella scia di “Oz”), non gli è da meno, cominciando dall’ex signora Penn, Robin Wright, sua moglie nella finzione, mai assurta a tali livelli di perfidia come quelli che si vedono nelle due serie prodotte sinora. Il tutto grazie a una sceneggiatura di primissimo livello, ripresa e ampliata da una miniserie inglese, adattata allo scenario politico americano e soprattutto con la supervisione esecutiva proprio di David Fincher, il regista di Se7en e The Game, che ne ha diretto anche l’episodio pilota. Sceneggiatore della serie è Beau Willimon, che dimostra di sapere molto bene come funzionano certi meccanismi e a quali compromessi politici e non, bisogna scendere per ottenere i propri scopi, in un luogo, Washington D.C., che contiene tutto il male e il bene di questo mondo al contempo. Nessuno è innocente in questo “castello di carte” e, come solo loro sanno fare sin dai tempi del Watergate, non esitano a mostrarcelo, varcando persino la soglia dell’interazione tra protagonista e spettatore, con Spacey che, guardandoci direttamente in faccia dal televisore, ci fa capire che siamo lì con lui, a condividerne o a odiarne le mosse.
HOUSE OF CARDS
Mario Uccella