Faletti e’ il vero autore dei suoi libri?

Tutto ha inizio il 22 luglio, quando la traduttrice Eleonora Andretta pubblica un post su Italians, il seguito blog di Beppe Severgnini sul corriere.it.
L’argomento è l’ultimo libro di Giorgio Faletti, Io sono Dio, uscito lo scorso maggio per Baldini e Castoldi Dalai con una tiratura record di 500mila copie.

Secondo la Andretta il romanzo presenterebbe un elevato numero di calchi, ovvero espressioni tradotte letteralmente dalla lingua originale che creano nel risultato finale un effetto discordante. Un esempio: il modo di dire “don’t beat about the bush” viene tradotto con “non girare intorno al cespuglio” e non con “non menare il can per l’aia”. E ancora, “I owe you one” viene tradotto con “te ne devo una” e non con “sono in debito/a buon rendere”.
Modi di dire americani, citati letteralmente in un libro ambientato in America, non sarebbero fuori luogo se si trattasse di un testo tradotto. Ma non è questo il caso. Potrebbe essere che l’italianissimo Faletti pensi in inglese, lingua che conosce benissimo, e che poi traduca mentre scrive, ma anche questa tesi, analizzando la linguistica e la tecnica stilistica, secondo Eleonora Andretta non regge. Le fa eco Franca Cavagnoli, traduttrice di ben tre premi Nobel, perplessa allo stesso modo su alcune parti del testo.
Mentre su web il post ha avuto un’eco diffusa, la carta stampata non ha dato rilievo alla notizia, almeno fino agli inizi di agosto quando, Il Giornale prima, Il Corriere e Oggi poi, hanno sollevato la questione. C’è un ghost writer dietro Faletti?

La replica dello scrittore non si è fatta attendere e su La stampa di sabato ha ampiamente espresso il suo punto di vista. Che però, più che una lecita difesa del proprio lavoro è risultato un attacco pesante alla professionalità della Cavagnoli “traduttrice di ben tre premi Nobel, laureata in Questo e Quello e insegnante di Quell’altro e Altro ancora” e della Andretta “che può vantare lo stesso tipo di retroterra culturale con il ruolo di esaminatrice per l’ammissione a Cambridge come ciliegina sulla torta”. Sulla Cavagnoli aggiunge: “Il fatto che si traducano dei Premi Nobel a volte può essere fuorviante e indurre a facili entusiasmi, che andrebbero tenuti a bada”.

Certamente Faletti è consapevole del ruolo e del peso che un traduttore riveste nel successo di un romanzo, e certamente riconoscerà i grandi talenti di chi, Pavese e Pivano per fare due esempi, ha portato in Italia grazie a questo lavoro i grandi nomi della letteratura mondiale. Ridurre ad una “risibile querelle estiva e premestruale” la questione sollevata, è forse un’occasione persa per legittimare la propria onestà di scrittore, e sicuramente un tentativo poco riuscito di riproporre la comicità del Drive in.

Fonte www.voceditalia.it

eva massari per voceditalia.it

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