Eraldo Affinati ci parla di sé e del suo libro “La città dei Ragazzi” (Mondadori), con cui ha vinto il Premio della Critica del Premio Letterario Vico del Gargano 2008 e è finalista al Premio Stresa di narrativa.
Nel libro, autobiografico, si intrecciano tre piani diversi di narrazione, la quotidianità della comunità con le difficoltà di convivenza tra ragazzi provenienti da culture e paesi diversi, il viaggio in Marocco intrapreso da Affinati per accompagnare due ragazzi a visitare le famiglie con genitori amorosi ma nessuna prospettiva di futuro, e la storia del padre, a sua volta orfano che si era arrangiato a sopravvivere a Roma con i mestieri più disparati. Dedicarsi all’insegnamento dei ragazzi soli è per Affinati un modo di risarcire il padre per quello che non aveva avuto.
Vuoi raccontarci qualcosa di te?
Vivo a Roma e da alcuni anni insegno storia e italiano in un Istituto professionale statale, distaccato presso la “Città del Ragazzi”, una comunità dove vengono accolti ragazzi soli dai 14 ai 18 anni. I ragazzi imparano a gestirsi, eleggono un sindaco e hanno una loro moneta che è lo scudo. La comunità è stata fondata nel 1945 da monsignor John Patrick Carroll-Abbing ed è finanziata da donazioni che provengono in prevalenza dagli USA. Una volta maggiorenni, i ragazzi devono lasciare la comunità e mantenersi lavorando. Da questa mia esperienza di insegnamento è nato il mio ultimo libro “La città dei ragazzi”.
Scrivendo “La città dei ragazzi” hai immaginato un lettore particolare, ragazzo o adulto?
Non ho immaginato nessun lettore particolare, scrivo per tutti. Vorrei riuscire ad essere chiaro e comunicativo allo stesso tempo.
Le storie descritte sono vere o sono collage di varie storie?
Le storie sono vere e integralmente attribuite ai singoli personaggi. I nomi sono modificati perché si tratta di ragazzi minorenni.
Perché la scelta di descrivere i dialoghi dei ragazzi in maniera sgrammaticata?
Ho voluto conservare il loro linguaggio ancora approssimativo per fare capire al lettore la fatica che questi ragazzi fanno per esprimersi in una cultura che non è la loro.
Come ti sei appassionato alla scrittura e cosa rappresenta per te?
Sin da ragazzo ho sentito di essere un uomo espressivo più che un uomo d’azione. Gli scrittori sono stati i miei compagni segreti: Tolstoj, Hemingway, Dostoevskij tra gli altri hanno confortato la mia esistenza solitaria.
Che cosa leggi?
Letteratura contemporanea e classica. Al Festival della Letteratura di Mantova sabato 6 settembre presenterò una lezione su Cesare Pavese, l’ho riletto tutto poco tempo fa. Altre letture Bernard Malamoud e un romanzo che sto gustando in questi giorni, “Il buon Stalin” di Viktor Erofeev.
Sei riuscito a trasmettere la passione per la lettura e per la scrittura a qualcuno dei tuoi allievi della “Città dei ragazzi”?
In alcuni casi sì, perché facendo leggere libri come “Il richiamo della foresta” di Jack London sono rimasto stupefatto nel vedere quanto i ragazzi afgani si appassionavano alle vicende del cane Buck. Naturalmente per loro il problema è soprattutto linguistico.
Cosa pensa dei premi letterari?
Li considero un’occasione di visibilità per un’opera letteraria.
La più bella soddisfazione avuta finora?
Lo sguardo dei miei scolari.
A chi o cosa devi dire grazie?
Certamente a mio padre e a mia madre i quali nonostante i loro problemi sono riusciti a farmi studiare, cosa che loro non avevano fatto.
Progetti letterari per il futuro?
Il prossimo libro sarà un libro su Berlino, una guida d’autore su questa città a cui sono molto legato visto che mi sono sempre interessato alla seconda guerra mondiale.