Dalla nostra inviata.
“Quanti serial killer ci sono in questa sala”? No, non č uno scherzo, č la domanda finale che Sebastian Fitzek ha rivolto al pubblico accorso nella mattinata di sole a Courmayeur.
Non č uno scherzo, ma un test serio creato dal Fbi, per cui un serial killer risponderebbe a bruciapelo al seguente quesito.
Una donna al funerale della madre incontra un uomo, ma subito dopo averla seppellita, cerca invano l’uomo che sembra sparito nel nulla. Dopo due settimane, la sorella della donna viene uccisa. Chi č l’assassino e perché ha compiuto l’omicidio? Bč, sembrerebbe una domanda strana, invece ci permette di capire meglio il personaggio.
Famoso per le sue presentazioni/performance, una volta si č presentato su una sedia a rotelle, chiuso in una camicia di forza insanguinata, perché, spiega “i giornalisti avevano criticato il mio look da Harry Potter, cosě ho deciso di presentarmi come Hannibal Lecter”, lo scrittore tedesco presenta con Sebastiano Triulzi, Il bambino (Elliot).
Per scrivere questo e tutti i suoi romanzi, ha attinto alla vita reale: “una cara amica mi ha raccontato che quando aveva sette anni ha fatto il suo primo viaggio i Francia. Ma ricordava perfettamente di esser giŕ stata lě: riconosceva luoghi e indirizzi. Probabilmente aveva vissuto lě in una vita precedente. E allora ho pensato: di solito, s’immagina di essere stati una persona importante in una precedente vita, ma cosa succederebbe se invece si č stati una persona del tutto normale?”.
Cosě, per scrivere il suo psicothriller, ha immaginato che un bambino, innocenza pura, ricordasse di esser stato un feroce serial killer. Perché la mente umana é come le profonditŕ del mare, sappiamo che esistono, ma non ci siamo mai stati, abbiamo soltanto un’immagine mentale.
Nei suoi romanzi Fitzek ha sempre descritto situazioni critiche in ambienti claustrofobici – il prossimo sarŕ ambientato in una nave in viaggio tra New York e Amburgo – perché gli interessa sapere come le persone reagiscono sotto pressione. Non č interessato a descrivere solo ciň che accade, altrimenti si limiterebbe a scrivere un romanzo di azioni, ma a raccontare quelle situazioni intime, di dialogo e conflitto che precedono l’azione. Per questo Fitzek piace a molti, compreso Walter Veltroni (che doveva presentarlo e che per impegni istituzionali ha dovuto declinare l’incontro), e piace anche a molti psichiatri, anche se si chiede come sia possibile che “dopo una giornata passata con persone con problemi mentali debbano leggere i miei romanzi”.
E a proposito di problemi, per uno scrittore l’essere sardi č una discriminante o un pregio? Per rispondere a questa domanda, Marcello Fois ha chiamato dalla Sardegna cinque dei suoi migliori rappresentanti -Giulio Angioni, Giovanni Maria Bellu, Michela Murgia, Wilson Saba e Giorgio Todde– per discutere sulla tesi: č meglio essere sardi che noir.
La Sardegna conta un milione e mezzo di abitanti, ma ha una grande densitŕ di scrittori, uno ogni settemila e da cinque anni le librerie italiane registrano una massiccia presenza di autori sardi. Dice Fois: “Qualcuno ha immediatamente gridato al miracolo; i piů politicizzati hanno attribuito questo fenomeno alla crescita di autostima delle patrie lettere, i piů informati hanno indicato come punto di partenza la crescita dell’editoria locale; altri infine, hanno pensato di storicizzarlo in fieri constatando che quanto oggi č evidente ha covato sotto la cenere per qualche decennio”.
Tutto ciň dimostra quanto questo fenomeno sia diventato ormai numericamente ponderante.
“La scrittura contemporanea in Sardegna č noir nell’accezione piů tecnica del termine, e cioč in quanto scrittura di inquietudine, dove il diktat č “affascinare, tenere desta l’attenzione e avere qualcosa da dire” esattamente come accadeva ai poeti e raccontatori estemporanei da cui molti di noi, scrittori e sardi, provengono”. La stessa Grazia Deledda, madre della forma romanzo in Sardegna, profuse dosi massicce di letteratura di genere nei suoi romanzi.
Continua Fois: “Ma č nel contemporaneo che la saldatura tra l’analisi antropologica e la scrittura cosiddetta di genere trova un esito affatto noir in Sardegna. Le caratteristiche ci sono tutte: si fa parte di un’isola, quindi di un microcosmo di sopravvivenze, e ci si č formati ascoltando le narrazioni di epiche sanguinarie”. Ogni letteratura cresce in base alla particolare chimica territorio in cui si sviluppa e dell’immaginario che lo nutre. Per cui il fatto di essere sardi, di appartenere ad un piccolo mondo e di avere dei confini determinati, consente di trasferire al “mondo grande” le proprie conoscenze e di capirlo, sostiene Bellu. Sarŕ che da Salvatore Satta in poi, i sardi hanno dimostrato di scrivere e di scrivere bene i noir, per cui, conclude Angioni: “il problema non č essere sardi o meno, noi, come tutti gli autori, vogliamo scrivere, e basta”.
E hanno scritto, e bene, anche Elisabetta Bucciarelli e Marco Vichi, i primi due finalisti del premio Scerbanenco, che, insieme a Carlo Oliva e Lia Volpati, hanno presentato i loro lavori, rispettivamente Io ti perdono (Kowalski) e Morte a Firenze (Guanda), nel pomeriggio. Due romanzi con molti punti in comune: una sparizione, un grave episodio di pedofilia e i protagonisti seriali, Bordelli, “il commissario dal volto umano” di Vichi e la Vergani, “una persona assolutamente normale, lontana dai clichč di superdonna” della Bucciarelli.
Assolutamente da segnalare Una vita tranquilla, il film di Claudio Cuppellini, ancora in fase di montaggio, il cui soggetto ha vinto il premio Solinas nel 2003, “la storia del rapporto tra padre e figlio, in una cornice criminosa e noir”, girato tra l’Italia (Napoli) e la Germania, con un Toni Servillo ingrassato, ma che, nei soli quattro minuti del promo, č riuscito a incuriosirci e appassionarci.
A proposito di curiositŕ. Qualcuno ha risposto alla domanda di Fitzek. Un probabile serial killer si aggira per Courmayeur.