Colaprico, Valpreda e Binda

Il maresciallo in pensione Binda si è inserito a tutto diritto tra i protagonisti di carta del giallo italiano. Giunto ora alla sua Quinta stagione il protagonista dei cinque libri che lo hanno visto investigare, tra i ricordi di una vita da carabiniere trascorsa nella Milano sempre in cambiamento, continua a stupirci. Binda, inventato nel 2001 dallo scrittore e inviato di cronaca nera Piero Colaprico e Pietro Valpreda, è sopravvissuto anche alla scomparsa dell’anarchico, accusato per anni imputato della Strage di Piazza Fontana del 1968. Da questo insolito incontro nacque proprio il personaggio di Binda: attraverso di lui, per i primi tre romanzi della serie, abbiamo conosciuto da vicino il cuore “nero” di Milano: quello della mala e dei misteri irrisolti di una metropoli che è cambiata nel corso di pochi decenni. A dimostrarlo La quinta stagione dove il solo Colaprico è capace non solo di descriverci come siano cambiate le coordinate e i codici “morali” della nuova criminalità (ormai in mano a “nuovi barbari” venuti dall’est), ma anche di una politica che ha puntato quasi tutte le proprie risorse sull’immagine e sulla comunicazione spaccando la città in due: da una parte una città di serie “A”, da mostrare ai turisti, una Milano formato cartolina, dall’altra una città di serie “B”, quasi da nascondere per il degrado e l’abbandono che la contraddistingue. Ed è proprio in questo nuovo scenario, tra periferie degradate e uomini lasciati in balia del proprio destino, che Binda si troverà immischiato in una nuova indagine che lo porterà, per l’amicizia che lo lega ad ex ladruncolo, ad essere addirittura rapito da una banda di albanesi, nuovi veri padroni che si sono bevuti quella che un tempo è stata la “città da bere” e si ritrova ad essere, ancora oggi, una “Milano in coma vigile”.
Stilos ha incontrato Piero Colaprico: con lui abbiamo fatto un viaggio in questa nuova realtà. Senza dimenticare un passato a cui, forse, si guarda con la stessa nostalgia di chi non crede che i “nuovi barbari” siano soltanto un’orda venuta dall’Est.

Com’è nato il personaggio del maresciallo in pensione Binda?
Il vecchio Pietro Valpreda girava per Milano con un dattiloscritto e Tecla Dozio, della Libreria del Giallo, e Carlo Oliva, il prof che dei gialli sa tutto, gli suggerirono di farmi diventare suo complice. All’inizio di Binda c’era il nome, con calma è stato fabbricato il resto. Ho clonato Valpreda e ho usato parte del suo Dna, ho aggiunto parte del Dna di alcuni marescialli che conosco da tempo, Valpreda ci ha messo la milanesità, alla fine abbiamo ottenuto il mic che cercavamo. Uomo del Nord, infatti è nato davanti alle Grigne. Senza pregiudizi. Rispettoso della verità e della legge. Marito e padre esemplare. Ma con un lato dark e malinconico che sa tenere a freno, perché anche le persone più limpide nascondono talvolta dolori inconfessabili, tensioni, paure… e anche il coraggio per saperne venire fuori.

Qual’era l’apporto di Valpreda nella stesura dei romanzi?
All’inizio litigavamo molto, al terzo giorno di scrittura bimane gli dissi: “Allora facciamo così. Detta. Allora Binda adesso dove va? Che fa? Detta che io scrivo, non temere”. Lo feci dettare per venti minuti, poi gli girai lo schermo del computer. Mi ricorderò sempre la sua faccia: “Uhè, ma così non si capisce un casso…”. “Infatti, perché la scrittura è fatta di tante cose, punteggiatura, sintassi, ritmo, vocabolario, grammatica, ripetizioni, pause, anima. C’è un artigianato, e quello è mestiere mio. Il tuo, assieme a me, è raccontare la storia”. Piano piano, piano piano, ci siamo fatti un enorme regalo reciproco. I libri erano scritti davvero fianco a fianco. Dicevamo che cosa doveva succedere e lo scrivevamo, con lui che si fidava del mio lessico e, non raramente, lo potenziava. Io l’ho aiutato a mettere nero su bianco quello che voleva, lui mi ha fatto perdere la vigliaccheria della scrittura. Dopo aver sintetizzato il pensiero di due crani per metterlo in pagina mi sono accorto di aver acquistato una velocità di scrittura notevole. Anche quando faccio il mio mestiere di cronista, se prima per fare 90 righe serie ci mettevo un’ora e mezzo, diciamo un minuto a riga, adesso me la cavo anche in 45, con un risultato secondo me migliore.

Anche perché Valpreda (come dimostra una delle sue prime prove narrative “Tre giorni a Luglio”, Edizioni Ponte della Ghisolfa) sembrava più una fonte inesauribile di storie che un vero e proprio narratore…
Quel libro io l’avevo letto senza conoscerlo e, in un’era pre-Camilleri, Valpreda già usava il dialetto. Era un uomo simpatico, intelligente, grande osservatore, buona memoria. E autodidatta. Aveva letto migliaia di libri, moltissimi gialli, ed era un’autorità in fatto di storia anarchica e storie di guerra. Ma aveva fatto credo la terza media e questa mancanza di basi talvolta si sentiva. Non è che tutti possono mettersi a scrivere. Però lui ci stava provando seriamente, purtroppo alla fine del nostro terzo libro una malattia se l’è portato via, lasciandomi un bel po’ di rimpianti. Per altro, era un entusiasta della vita, cominciavamo ad avere un po’ di successo, niente, si vede proprio che il suo destino non era facile.

Negli anni che hai passato al suo fianco che idea ti sei fatto della sua storia politica e umana?
È stato il perfetto falso colpevole per la strage di piazza Fontana. Anarchico persino per gli anarchici. Uno che minacciava sfracelli a parole, ma poi aveva una dolcezza umana profonda. Non dico che fosse uno stinco di santo, perché non lo era, e quando credeva nella rivoluzione qualcosa immagino avesse combinato, ma sbattere lui in mezzo a quella porcheria che fu piazza Fontana no, non esiste. Per altro, tutte le indagini puntavano e puntano a destra, mi chiedo ancora come sia stato possibile che lo Stato accusasse gli anarchici. O meglio, una risposta me la do: erano i più sfigati, i veri utili idioti da far passare per mostri, in anni in cui la divisione tra Atlantici e patto di Varsavia serviva a coprire anche tante magagne di casa nostra.

Venendo a “La quinta stagione”: a colpirmi, più che le nuove coordinate della malavita milanese passata in mano agli stranieri (quelli che chiami “i nuovi barbari”), più che le condizioni delle periferie è il duro, esplicito e coraggioso attacco che muovi contro la politica amministrativa della città colpevole di spaccare in due la città: una di serie A e una di serie B
Non so se sono coraggioso, diciamo che anche se non sono neutrale, cerco di essere imparziale, per lo meno mi sforzo davvero di esserlo. Milano, dalla metà degli anni Ottanta, che non a caso erano la quinta degli altri libri con Binda protagonista, ha subito un terremoto, spaccandosi – è successo lo stesso nelle grandi città mondiali – tra chi aveva denaro, attici e Mercedes, e ha avuto sempre più soldi, auto, donne, cachemire, e chi invece poteva comprarsi sempre meno cose da mangiare, sempre meno paia di scarpe. Oggi la forbice è così divaricata che rischia di spezzarsi. Come dice un cartello su una macchina, “In corso Como la fioriera e al Corvetto la ruera”, l’immondizia. Gli amministratori sono asserviti ai commercianti e agli industriali, i poveri si arrangino.

Da cronista di nera ti muovi per l’Italia: credi che questa divisione sia tipica solo di Milano?
Mi piacerebbe, una volta per tutte, spiegare che Milano non è una scelta di comodo. Milano è l’unica metropoli di questo bellissimo e talvolta amaro Paese. Basta guardare gli ultimi anni. La città-feudo di Bettino Craxi è diventata la città che gioiva per Mani Pulite, poi ha votato in massa la Lega, poi per Berlusconi, insomma tutto quello che ha cambiato il resto dell’Italia è partito da qui. La mia ambizione è fare libri “glocal”, che parlino di realtà locali, ma servono a descrivere la realtà globale. Se poi ci riesco o no è un altro paio di maniche, ma questo tento di fare, senza risparmiarmi.

Chi sono allora i veri barbari? (Mi viene in mente una poesia di Kavafis: “Aspettando i barbari” in cui il poeta greco usa i propri versi come metafora di una classe politica che “usa” il pericolo dell’invasione straniera come “controllo sociale”).
Conosco la poesia e mi perdo tra le mille facce dei barbari. Per me i barbari peggiori sono quelli che, pur avendo studiato e avendo i soldi, si sono chiusi nelle loro roccaforti fregandosene del resto. Guarda caso, la tragedia delle rapine alle ville ha fatto capire che nessuno, tranne i politici e gli industriali dotati di scorta, è davvero intoccabile. Quando le persone smettono di guardarsi in faccia e guardano solo al proprio portafoglio e al proprio tornaconto, il rischio di fare l’incontro sbagliato aumenta. Sulla strada, oggi i barbari sono i criminali simili a fantasmi, quelli arrivati qua da guerre e carestie, con tante cicatrici e tanta voglia di avere quello che gli è stato fatto credere sia necessario per essere felici: denaro, denaro, denaro. La sottocultura dei barbari contemporanei è tragica. Le donne sono esseri inferiori, noi che giriamo con qualche soldo addosso siamo miniere e loro, se possono, amano vite spettacolari e, persino, morti spettacolari. Tante volte – mi dicono – vanno alla sparatoria anche quando non serve perché “fa fico”.

Tu che vivi da molto nella cronaca nera: sono davvero cambiati i codici e le regole tra vecchia e nuova mala? Non è sempre stato così nella Milano criminale?
È un periodo di transizione. Sino agli anni Ottanta, gli anni della cocaina che ha brasato le teste di molti gangster, la sparatoria era il limite estremo. Era “interna” alle gang. Adesso è erga omnes. Abbiamo gli italiani dietro le quinte, a fare i manager del traffico, e sulle strade le gang legate dalla stessa zona di nascita, kossovari, albanesi, slavi, ecuadoriani. Sono in subappalto, ma le mani sulla città le hanno ancora gli italiani, sempre più legati all’economia pulita. Un Turatello che girava in pelliccia e Cadillac e non temeva di essere riconoscibile è stato sostituito da un mister X che più si mimetizza più è contento. Si è passati dai falchi agli squali degli abissi.

L’impronta di Scerbanenco è abbastanza chiara (soprattutto nella toponomastica del crimine, non certo nello stile). Quali altri autori ti hanno influenzato?
Se dico Joyce vi mettete a ridere… Credo di aver letto qualche migliaio di libri, i gialli saranno il venti per cento. Comunque, tra i giallisti Jim Thompson è il mio prediletto, Simenon extra Maigret è un genio della descrizione che sposa paesaggio e stato d’animo, Mc Bain è, come me, uno che conosce le procedure e le utilizza, beh, meglio di me, nella macchina narrativa.

In effetti, molti hanno paragonato i protagonisti dei tuoi libri a quelli di Chandler, ma anche per me sei più vicino, invece, a quelli di un Jim Thompson. Quelli di Chandler sembrano incastrati nella finzione, quelli di Thompson, come i tuoi, sono “vivi”!!!
Sono sensibile a questo complimento. Non dico che sto per commuovermi, ma… C’è chi dice che la realtà non conta, che uno che scrive di fiction ha tutte le cose dentro se stesso, etc… Ecco, io non ci credo. Per me un narratore deve sapere, meglio se non troppo vagamente, di che cosa sta trattando. Per questioni di lavoro, ho frequentato e non solo conosciuto criminali ed ex gangster, sbirri, magistrati, avvocati, prostitute, baby-killer, vecchi marci, giovani sballati, credo di aver bevuto qualcosa con gente che altri tengono a distanza. Thompson conosceva il male perché l’aveva guardato negli occhi, penso che sia successo lo stesso anche me, dopo i trent’anni. Quello che mi salva è che non sono avido e non ho grandi vizi, sono un esploratore onesto e, dopo alcune esperienze, ho imparato che un vecchio proverbio indiano, e cioè che per giudicare un uomo devi camminare per un po’ nei suoi mocassini, è frutto di una saggezza che s’è persa.

Ad un turista che volesse fare un tour alternativo a Milano: quali luoghi peggiori consiglieresti?
Vuoi farmi denunciare e far diventare i miei diritti d’autore filetto per i figli di qualche penalista? Non farò nomi, ma dirò tre cose. Uno, andare in alcune discoteche famose e seguire, senza farsi notare, i buttafuori che spacciano e picchiano e sono “protetti”. Due, entrare in qualche ex fabbrica semidiroccata, perché compariranno nella notte ombre vestite di stracci che sembra di stare in “Fuga da New York”. Tre, avere un conoscente tra qualche bravo investigatore e chiedergli: “Mi porti in giro una notte?”. Da quel momento si scoprirà che il famoso “condominio Milano” ha cantine profonde e molto, molto tragiche.
(Gian Paolo Serino, per gentile concessione di Stilos)

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