Michele Placido, attore, sceneggiatore e regista in occasione della sua partecipazione alle Settimane Musicali di Stresa come voce narrante di Pierino e il Lupo di Prokofiev, con grande disponibilità ha concesso un’intervista a Whiteside.
In settembre inizierà a Roma un laboratorio teatrale dal quale scaturirà il progetto di un film sul Sessantotto, incentrato sull’occupazione della facoltà di Architettura dell’Università di Roma.
Questo episodio è stato il simbolo della presa di coscienza da parte della gioventù borghese di poter essere protagonista della propria storia e non subire più la cultura polverosa indietro di dieci anni rispetto al resto dell’Europa dove, come per esempio in Germania, erano già in atto diversi cambiamenti.
Alcuni dei protagonisti di questa occupazione verranno seguiti nel corso degli anni.
Il film (di un altro) che avresti voluto girare e il film (tuo) che non avresti voluto girare.
Dai tempi di De Sica a oggi sono molti i film che amo. Dovendo scegliere oggi Scorsese è l’autore che più mi si avvicina in un mondo di violenza e di brutalità che si evince dalle cronache di noir alla grande cronaca di politica.
Scelgo The Departed anche se Taxi Driver è il suo film più rappresentativo.
Per quanto riguarda un mio film, in genere si amano tutti, anche quelli più sfortunati. Scelgo il mio primo film, Pummarò, perché non mi appartiene, al di là dell’impegno civile, il film è piuttosto un documentario. Dovendone sacrificare uno, sacrifico questo.
Sei un regista di genere o un regista tout court, perché?
Mi piace l’idea che un regista corra con il suo tempo e vada con quello che il mondo di oggi ci racconta e lo traduca in linguaggio cinematografico.
Mi piacerebbe passare da western a giallo a storie politiche e d’amore. L’autore di genere è quello che racconta sempre la stessa storia.
Oggi non ci sono grandi autori. Si potrebbe prendere come esempio il giallo di Garlasco per raccontare storie di provincia che trasudano sangue. Preferisco storie con analisi di come sta cambiando il nostro paese. Farebbe bene al cinema e agli spettatori.
Il mio prossimo film sarà un film sul sessantotto per cercare di capire questa generazione di 50-60enni che si preparano a dare una svolta al paese, come si sono formati e se hanno tenuto conto di quella storia e se ne sono mentori o meno.
Per esempio Walter Veltroni parla di Lorenzo Milani e di quel periodo storico e se era da rivedere o rinnegare.
Mi piace fare un film politico in questo momento in cui i giovani fanno poca politica. Il film sarà dedicato a un pubblico di ventenni.
Un sempreverde da tenere sul comodino, una canzone da ascoltare sempre, un film da riguardare…
Mi piace pensare a Madame Bovary, è un libro che mi ha fatto sentire protagonista, mi ha fatto sentire l’eroina del libro. L’ho letto d’un fiato in un giorno solo. E’ curioso come un ragazzo meridionale si possa essere immedesimato in Madame Bovary.
Più che a una canzone penserei a una musica. My way di Frank Sinatra mi dà la pelle d’oca.
Un film che mi è lontano ma in qualche modo mi affascina è Ladri di Biciclette, di un autore al quale devo molto, Vittorio De Sica. C’è tutta una cronaca di Roma che mi riporta alla mia adolescenza nel dopoguerra, con lo humor Zavattiniano della difficoltà di vivere di un uomo onesto.
Si può vivere di solo cinema oggi? Come?
Oltre che lavorare nel cinema, dirigo il teatro di Tor Bella Monaca da un paio d’anni.
Vengo dall’Accademia, sono molto legato al teatro. Mi piacciono i suoi meccanismi naif. Nel teatro vige ancora la parola come protagonista e ciò me lo rende caro. Come scrittore di spettacoli mi appassiona di più la scrittura cinematografica. Molti grandissimi registi di cinema non vanno a teatro. I miei inizi sono stati il palcoscenico, la scuola di teatro. Mi piace continuare il discorso del teatro perché mi permette di educare i giovani, è luogo di incontro e di discussione e si può avere un risultato immediato attraverso la parola. Sono affascinato dall’Actor’s Studio dove gli attori diventavano protagonisti.
Mi piace l’idea del teatro come laboratorio., come quello che inizierò in autunno e dal quale nascerà il film sul Sessantotto. Emozioni su quel periodo attraverso scrittori, attori e musicisti.
Favorevole o contrario alle scuole di cinema?
Le scuole di cinema insegnano quello che è stabilito, non dovrebbero avere regole. Ogni insegnante insegna la propria visione, che nel momento in cui la insegna è già superata. Io stesso non vi insegnerei mai. Più che scuole farei laboratori di teatro. E’ difficile formare un grande artista, cercherei di valorizzare le attitudini personali di ciascuno.
Vorrei formare piccoli gruppi che continuino la ricerca al di fuori dal laboratorio teatrale.
Cosa pensi dei festival cinematografici?
Ormai francamente superati sono un mercato dove vendere prodotti tipo salame, formaggio, ecc.
Faticosissimi per i giornalisti che vedono centinaia di film tutti insieme, troppi per avere chiarezza e emozioni. Bisognerebbe rinnovarli. Non dovrebbero essere luogo di creazione di eventi né passerella di divi dove gli spettatoti gettano le noccioline all’americano di passaggio. Spero che Moretti rinnovi il festival di Torino, lui potrebbe esserne in grado. Il glamour lo fanno la televisione e i giornali. Il pubblico non fa differenza tra Fabrizio Corona e Tom Cruise. I festival sono sorpassati, non c’è più entusiasmo.
La più grande soddisfazione della tua vita.
Il giorno in cui sono stato ammesso all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica. Sono un uomo del Sud e non avrei mai sperato di entrare in un’Accademia di Arte Drammatica. Quel giorno ho detto grazie alla vita, avevo realizzato il mio sogno.