Seher non si chiama Seher. Si chiama Heranush. Sua madre e suo padre erano armeni e, incredibilmente, erano sfuggiti alla strage dei loro connazionali: lui perché si trovava in America. Lei perché era riuscita a sopravvivere alla marcia della morte. Non era riuscita però a salvare i figli: un maschio era morto, l’altro e la femmina erano stati rapiti.
La storia che l’avvocato Fethiye Çetin racconta in Heranush mia nonna (Alet, 12,00 euro) ha vari pregi: è vera, è raccontata da una protagonista della lotta per i diritti civili in Turchia (è stata prima in carcere durante la dittatura militare e ha in seguito difeso in tribunale lo scrittore Hrant Dink, poi ucciso dai nazionalisti nel 2007). E arriva alla grande storia passando per una minuta e straordinaria vicenda personale.
La Masseria delle Allodole di Antonia Arslan (il romanzo-verità pubblicato da Rizzoli e portato sul grande schermo dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani) è un libro di qualità letteraria ben più alta, anche i personaggi ne emergono come in una vera epopea.
Ma Heranush mia nonna serve soprattutto da richiamo: rende surreali (e inquietanti) coloro che, come l’editorialista ed ex diplomatico Sergio Romano, negano che la strage degli armeni sia stata un genodio: si sarebbe trattato “solo” di un massacro. Come se questo cambiasse qualcosa. Fra l’altro il termine genocidio è stato coniato nel 1944 dall’avvocato polacco Raphael Lemkin, che si era occupato in precedenza proprio dello sterminio degli armeni del 1915, cercando di indurre la Società delle Nazioni a prendere misure contro futuri crimini di questo genere.
La Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, approvata nel 1951 e frutto dei suoi sforzi sembra davvero modellata sul dramma degli armeni (Lemkin visse invece sulla sua pelle la Shoah e suo fratello Elias, unico sopravvissuto in Europa, finì perfino col patire lo stalinismo). Per esempio la Convenzione inserisce tra le caratteristiche di un genocidio il trasferimento forzato dei bambini. Ed è proprio la storia narrata da Fethiye Çetin: la storia di sua nonna e di migliaia di altre bambine che furono rapite dai turchi o sottratte, per un curioso senso di umanità, alla marcia della morte e inserite nelle famiglie musulmane come baby-spose, come concubine o come serve. Heranush è stata una sposa fedele di Fikri, il “cugino” musulmano al quale è stata destinata.
E benché abbia avuto più volte la possibilità di raggiungere la sua famiglia in America, ha finito col non farlo: avere a che fare con la propria, vera identità armena, non è uno scherzo in Turchia. Neanche oggi. Heranush, però, ha saputo tirar su una famiglia solida e diventare il riferimento per la sua piccola comunità. È diventata così il simbolo di una resistenza silenziosa, di una vittoria piccola ma solida contro l’assurdità non tanto e non solo dei genocidi. Ma soprattutto di coloro che, in nome di una sempre più sfuggente ragione di Stato, negano l’evidenza. Loro sì che sono i veri perdenti.
***
La rubrica WW (DiRottamenti) di Valeria Palumbo si prende qualche giorno di meritata vacanza. Il prossimo appuntamento e’ quindi per giovedì 10 gennaio 2008. Buone feste a tutti!