Il monastero dei lunghi coltelli



Lindsay Douglas
Il monastero dei lunghi coltelli
Kolwaski
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Tra monasteri, cattedrali, chiese e basiliche, le ambientazioni di quest’ultimo decennio thriller,noir e giallo hanno avvertito un netta tendenza clericale, a cominciare dagli angeli e dai demoni di Dan Brown, passando per gli scrivani di Glenn Cooper, per arrivare fino alla miriade di epigoni del precursore del genere, Umberto Eco, senza dubbio il più grande per stile ed erudizione. Dunque sui misteri e sugli enigmi che possono celare le millenarie colonne della Chiesa si sono versati i proverbiali fiumi d’inchiostro e pare che tutto quello che rimanga da dire sia un sonoro “Basta, cambiate argomento, per piacere”. E allora come trovare un po’ di originalità in mezzo a queste montagne di parole e storie che alla lunga risultano una la copia dell’altra?

Risposta semplice. È sufficiente leggere “Il monastero dei lunghi coltelli”, di Douglas Lindsay edito da Kowalski, 2009, per capire che, quando tutto è già stato detto, l’umorismo rimane l’unica arma ancora affilata con cui graffiare il foglio. Tagliente, proprio come lo strumento di lavoro del protagonista del romanzo, il cerusico Barney Thomson, il barbiere più sfortunato del mondo che, per fuggire alle accuse di omicidi mai commessi, si rifugia in un monastero, fingendosi frate per far perdere le proprie tracce. Peccato che anche nel convento inizi, proprio con il suo arrivo, una misteriosa catena di delitti. Gli altri monaci non ci metteranno molto a individuare il colpevole, il capro espiatorio: sempre il povero Barney, un’altra volta accusato, una volta di più innocente.

Secondo capitolo della saga del cerusico killer, questo romanzo, come si diceva, ha il raro dono dell’umorismo nero, nonché quello di una trama originale e uno stile mai banale. Indicato per tutti i nostalgici della famiglia Addams, per i fans di Sweeney Todd, per gli amanti di Tim Burton.

Fabio Girelli

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