Non solo Europa o Stati Uniti, con questo interessantissimo articolo Luigi Guicciardi ci porta negli angoli noir del mondo alla scoperta di autori tutti da leggere.
“Da alcuni anni il rock non è più americano. Oggi il più interessante è quello di rientro, contaminato dalle sonorità delle culture particolari, lontane dagli Stati Uniti”. Queste parole di Vincenzo Cerami, prefatore a suo tempo di Luciano Ligabue, possono riferirsi probabilmente anche alla situazione del Giallo contemporaneo. Dopo gli anni d’oro, infatti, dei fondatori anglo-americani, dei maestri franco-tedeschi, e dopo il successo recente degli Scandinavi, oggi il più interessante mi sembra appunto un Giallo di rientro, contaminato da alcune periferie culturali e sociali del mondo. Dunque, da lettore aggiornato e appassionato, e limitato da ragioni pratiche di tempo e di spazio, ho individuato in quattro aree geografiche particolari – il Maghreb, l’Africa Nera, la Repubblica Sudafricana e l’India – il fiorire recente di mystery, noir e thriller molto diversi tra loro, e perciò dotati di una propria peculiarità, ma spesso accomunati da un forte radicamento nella contemporaneità storica e civile dei rispettivi Paesi. Thriller, inoltre, prontamente tradotti anche da noi, prima da piccoli pionieri e lungimiranti talent-scout, e oggi da stampatori ben più importanti, a ribadire una realtà editoriale sempre più ricettiva e sensibile al valore effettivo di questi romanzi dalle periferie del mondo.
Che il Maghreb, dagli anni ’90, avesse proposto all’Occidente qualche giallista innovativo, lo si era già visto con Driss Chraibi (1926-2007), intellettuale marocchino studioso del colonialismo, espatriato giovanissimo in Francia e padre narrativo, dal 1991, dell’ispettore Alì, il poliziotto più famoso della letteratura in Giallo magrebina insieme al commissario Llob di Khadra, su cui torneremo. Dei suoi romanzi (pubblicati in Italia da Marcos y Marcos) non mi hanno interessato tanto le trame, quanto lo stile, canzonatorio e dissacrante, e soprattutto il suo improbabile protagonista, irriverente e ironico, amante dei cruciverba (come l’ispettore Morse di Colin Dexter), del whisky scozzese e delle donne, ma anche devoto al Corano, benché critico verso i costumi della cultura musulmana più tradizionalista, fiero dei suoi abiti sdruciti e delle sue scarpe da basket, che con le sue indagini bizzarre anticipa una specie di contatto fra l’Occidente e il mondo arabo, fra la nostra civiltà e quella islamica.
Ben diverso da Alì il cupo ispettore algerino Llob, uscito dalla penna dell’ex colonnello Mohammed Moulessehoul, testimone diretto della sanguinosa guerra civile che devastò il suo Paese, autoesiliatosi in Francia e detentore – proprio per motivi di sicurezza – dello pseudonimo Yasmina Khadra, dal nome di famiglia della moglie. In tre romanzi – Morituri, Doppio bianco (e/o 2000, 2001) e La parte del morto (Mondadori 2005), che segnano anche l’approdo di Khadra dalla piccola alla massima editoria italiana – Llob indaga in una Algeri putrida e corrotta, il cui squallore sarebbe completo senza la discreta ma struggente nostalgia dell’ispettore per la sua bellezza passata, e ogni volta il plot giallo – in anticipo su tanti esiti del noir sociale mediterraneo – si fa anche analisi della società algerina, in precario equilibrio tra un integralismo feroce e una classe politica e finanziaria altrettanto spietata e mafiosa. E non a caso ho detto “mafia”, pensando a uno scrittore siciliano del tempo di Khadra (e giallista altrettanto anomalo) a cui Khadra sarebbe piaciuto. La trama di Doppio bianco infatti, ristampato sei anni fa, mi sembra esemplare:
Un ex diplomatico, un tempo molto potente, viene selvaggiamente assassinato nella sua casa di Algeri. Poche ore dopo un docente dell’università subisce la stessa sorte. Nei due omicidi risulta implicato uno stesso commando di tre uomini, e all’origine sembra esserci un misterioso documento, dai contenuti politici devastanti, che l’ex diplomatico avrebbe voluto pubblicare…
Un Leonardo Sciascia più hard-boiled, un clima politico non lontano dal Contesto, e la Sellerio a sancire in qualche modo questa affinità con la pubblicazione dell’anno scorso de L’affronto, un poliziesco di estrema complessità, che per me sta dentro un genere ma lo sopravanza.
Sarah, bella signora di una famiglia ricca e potente, viene violentata nella sua villa a Tangeri in assenza del marito, Driss, commissario di polizia di umili origini che ha fatto carriera grazie alla protezione del suocero. Le indagini, secondo un costume consolidato, si avviano in modo inerte, finché lo stesso Driss non prende in mano il caso, ma, spinto da un sentimento diviso tra l’amore e la vendetta d’onore, arriva a lambire gli ambienti più privilegiati, e intanto diventa sempre più profondo il nuovo conflitto di coppia, tra il marito – sincero nel dolore, ma che d’istinto sente oltraggiata la propria atavica proprietà nei confronti della donna – e la moglie, che avverte il proprio corpo ormai come “carne contaminata”, ma rifiuta di soccombere a una cultura che per tradizione la vuole colpevole e che giustifica la ripugnanza del marito.
Ne esce così un giallo particolare, di notevole qualità letteraria, che attraversa una società claustrofobica, impaurita e diseguale, ma non così lontana, in fondo, dalla nostra.
Finalmente, all’inizio del Duemila, una nuova categoria di giallisti, stavolta dell’Africa Nera, non più solo occasionali, ha cominciato a specializzarsi nel noir. Tra i pionieri o precursori, ricordo Moussa Konaté (1951-2013), del Mali, autore di polizieschi strutturati sul modello del mystery classico, e dalla scrittura altrettanto classica, lontana dalle sperimentazioni linguistiche di un francese forzato e violato come quello di altri africani contemporanei (Konaté, d’altronde, è stato per anni insegnante di liceo e amante dichiarato della cultura dei greci e dei latini). Nei suoi gialli, tutti tenacemente editi da Del Vecchio fino a tre anni fa, una coppia di investigatori classicamente oppositiva – formata dall’anziano commissario Habib, riflessivo e filosofo, e dal giovane ispettore Sosso, modaiolo e impulsivo – indaga tra superstizioni, credenze animiste, fatalismi musulmani che costituiscono il contorno etnologico, e talvolta anche la sostanza stessa, della trama delittuosa. E muovendosi tra il centro e le bidonville di Bamako, capitale del Mali, Habib si scontra via via con il sistema di potere delle caste, la corruzione delle classi dirigenti, la polizia usata soprattutto per la soluzione repressiva dei problemi sociali, e alla fine di ogni inchiesta Konaté mostra d’aver utilizzato l’impianto poliziesco per riflettere sul destino del suo Paese, suggerendo che per combattere il crimine è necessario un profondo cambiamento sociale.
Ma oltre Konaté – e sempre nell’Africa Nera – va assolutamente segnalata la nouvelle vague di autori molto giovani, che in questi ultimi quattro anni sono usciti da noi con gialli assai diversi, dal thriller politico al noir con contorni sentimentali, tutti ambientati nella Nigeria contemporanea rurale o urbana. Per prima voglio ricordare Chibundu Onuzo, classe 1991, autrice a ventun anni de La figlia del re ragno (Fandango, 2019), storia dell’amore impossibile tra la diciassettenne Abike, figlia intelligente e smaliziata del ricchissimo magnate Johnson, e un venditore ambulante di gelati, Runner G, intravisto dal finestrino di un’auto e subito sentito come diverso per modi e per cultura. Scatta così una relazione che tracima gli argini delle classi sociali, basata però – più che sull’attrazione fisica ed emotiva – sui segreti che entrambi custodiscono e non riescono a confidarsi. Qual è il passato di Runner? E cosa c’è dietro la figura di Mr. Johnson, uomo in grado di assicurare alla figlia una ricchezza impensabile in un Paese come la Nigeria dalle disparità sociali enormi? Fino alla scoperta finale di una verità impietosa e crudele, che viene dal passato…
Opera prima di indubbio interesse, col pregio di un’intensa mimesi sociale di atmosfere e quartieri di Lagos, ritratti in tutta la loro vivida violenza, ma anche col limite di uno squilibrio interno alla trama e alla struttura diegetica del racconto (con la seconda parte più frettolosa e prevedibile), La figlia del re ragno è risultata peraltro prontamente superata in qualità da Benvenuti a Lagos, thriller dell’anno scorso (sempre per Fandango), storia ben più dura di due disertori, un ex ribelle, una ventenne orfana e una donna misteriosa, tutti in fuga dal delta del Niger e diretti alla capitale: un quintetto diviso dall’estrazione sociale, dall’età e dalla vita precedente, ma accomunato dalla mancanza di soldi, sulla cui strada il destino pone l’incontro con l’ex ministro dell’Istruzione nigeriano, reo d’aver rubato dieci milioni di dollari; e da quel momento, come tessere di un domino, ogni decisione verrà presa d’impeto e le scelte dei personaggi, a cascata, si rifletteranno sulle loro vite.
Notevole m’è apparso anche il thriller della giovane Oyinkan Braithwaite (nata a Lagos nel 1988), nigeriana di rientro dopo studi universitari in Inghilterra, il cui Mia sorella è un serial killer, uscito per La Nave di Teseo nel 2020, mi ha colpito fin dall’incipit: la protagonista infatti, Ayoola, egocentrica e bellissima, ha appena ucciso uno dei suoi tanti ex fidanzati; per autodifesa, o almeno così dice. Così, quando la sorella maggiore Korede – infermiera assennata, protettiva e tutt’altro che bella – riceve una telefonata da lei, sa già che cosa le verrà chiesto: candeggina, guanti di gomma, nervi d’acciaio e stomaco forte. Perché è la terza scena del crimine che sarà pregata di pulire. Certo, il dovere di Korede sarebbe di andare alla polizia, ma l’amore per la sorellina e la famiglia prevale su tutto. Almeno finché Ayoola, di cui tutti si invaghiscono, non inizierà a frequentare il dottore con cui Korede lavora e di cui è innamorata… Un po’ crime thriller, un po’ racconto splatter, un po’ dramma psicologico, un po’ storia d’amore, questo romanzo mescola generi, tematiche e piani di lettura, contribuendo insieme a un’analisi sociologica sulla classe media nigeriana, sulla visione distorta della bellezza in quella società, sulle dinamiche di potere tra generi e in famiglia, e credo che proprio in questa complessità risieda la sua novità e la sua forza.
A pochi mesi fa risale invece Il cercatore di tenebre (Longanesi, 2022) del nigeriano – ancora una volta – Femi Kayodé, uno psicologo all’esordio nel romanzo, ma già collaudato da anni di sceneggiature e testi teatrali. Anche il protagonista, Philip Taiwo, come l’autore è uno psicologo rientrato da poco a Lagos dopo anni negli Stati Uniti, in crisi con la moglie e incaricato di recarsi in un piccolo centro, Okriki, a indagare sul linciaggio di tre studenti, uccisi l’anno prima da una folla inferocita: una tragedia resa tristemente celebre da più di un video in giro sui social, ma mai chiarita nelle sue motivazioni. Ed è proprio il padre di uno dei tre, un ricco banchiere, che, non convinto dall’ipotesi di un furto sventato o di un’esplosione di rabbia collettiva, ha chiesto a Philip di riaprire il caso con discrezione. Ispirato a una vicenda reale di cronaca del 2012, ambientato nella Nigeria più sconosciuta anche per chi nel Paese ci è nato, il thriller di Kayodé trae la sua forza dalla scelta di un protagonista insieme interno ed esterno al mondo raccontato: nigeriano nelle radici ma americano nella cultura, psicologo investigativo con curriculum internazionale ma ostacolato o respinto dalla polizia locale, Philip è un attualissimo uomo solo, destinato a scoprire pirandellianamente che nessuno è mai chi sembra perché tutti indossano una maschera, mentre Kayodé intesse la sua trama in una felice sospensione tra mystery, noir e thriller.
Ben diversa la realtà narrativa che emerge in questi anni dal Sudafrica, tutta improntata al thriller con l’eccezione dell’ambientalista Sally Andrew, esordiente con Amori, crimini e una torta al cioccolato (Guanda, 2015), in cui ha amalgamato la trama gialla – basata sulla violenza sulle donne – col tema fortunato della cucina. La protagonista infatti, donna ironica e ottima cuoca, debitrice in qualche tratto alla Precious Ramotswe di McCall Smith e titolare di una rubrica giornalistica di Posta del Cuore, si interessa a una donna fragile e ferita, in fuga da un matrimonio che è diventato un incubo. Ma il genius loci sudafricano, in piena e sanguigna attività, è senza dubbio Deon Meyer (1958-), partito nel segno del mystery con La lista del killer e Il sapore del sangue (Piemme, 2000 e 2002) e presto approdato al thriller politico-civile (Codice: cacciatore, Piemme, 2005), con i personaggi di Bennie Griessel, capitano di polizia di Città del Capo, e di Lemmer, investigatore privato e bodyguard, eroi di due serie avviate dal 2007 all’anno scorso (da Afrikaan Blues, Mondadori 2007, a L’ultima caccia, e/o 2021). Entrambi propensi all’alcol e alla nevrosi, esperti di carcere e sfortuna, solitari e disillusi nella vita privata, non differirebbero troppo da altri colleghi del Giallo europeo, così come le stesse modalità narrative risultano simili a quelle dei grandi bestseller internazionali, a base di multinazionali, spie, grandi speculatori, droga e tante armi. Senonché i soggetti e i contenuti ritraggono la feroce e contraddittoria realtà del dopo apartheid, tra ambientalisti minacciati, animalisti corrotti, poliziotti divisi tra bianchi e neri e tra neri e neri (Zulu, Xhosa, Bantu), in una società in fibrillazione rispecchiata in modo nuovo e fedele. E il seme narrativo di Meyer – insieme ai più alti modelli di James Ellroy e Don Winslow – mi sembra abbia fruttificato in Roger Smith (1953-), autore di un unico thriller, Sangue misto (Einaudi, 2010) – centrato sulla figura di Jack Burn, in fuga con la famiglia dalla polizia americana a Cape Town, dove conoscerà la violenza dei quartieri-ghetto, ucciderà due gangster e attirerà su di sé l’attenzione di un poliziotto folle e corrotto – ma soprattutto in Karin Brynard, recentissima new entry nel thriller sudafricano con Terra di sangue e I nostri padri (e/o, 2018, 2019), in cui l’ispettore Beeslar, indagando prima sul massacro di due donne bianche in una fattoria ai confini col Kalahari, poi sull’omicidio della moglie di un imprenditore in un ricco quartiere di Stellenbosch, fa i conti suo malgrado con le difficili eredità del colonialismo e dell’apartheid, in una terra dalle ferite ancora aperte, divisa dal colore della pelle, ma più ancora dalla lacerante assenza di radici.
Del tutto diversa, ancora (seppur per campione), la situazione del Giallo nel segno dell’India. Qui il nome che oggi mi pare più rilevante è quello di Abir Mukherjee, classe 1974, di famiglia indiana ma cresciuto in Inghilterra, talentuoso autore, finora, di quattro thriller storico-politici ambientati nella Calcutta coloniale tra il 1919 e il ’22 e pubblicati da SEM dal 2018 all’anno scorso, l’ultimo dei quali (Morte a Oriente, 2021) non disdegna neppure il classico topos della camera chiusa, ma calandolo all’interno di trame storiche inedite giocate tra suspense e introspezione, con una fluidità narrativa che mi richiama in parte Somerset Maugham e con un protagonista, il capitano Sam Wyndham, modernissimo per sensibilità e nevrosi.
Qui la rassegna si chiude. Altre aree periferiche stanno offrendo, lo so, giallisti interessantissimi: qualche cubano in debito con Leonardo Padura Fuentes, l’israeliano Dror Mishani, il giapponese Yoshida Shuichi (col notevole thriller psicologico Appartamento 401, Feltrinelli 2022). Ma già un bilancio sintetico è possibile. Dalle periferie del mondo, per dirla con Ernest Mandel, mi pare che il Giallo abbia travalicato spesso la pura funzione di “letteratura irriflessa”, di evasione o di consumo, per farsi invece informazione, riflessione, denuncia sociale, coscienza di realtà sempre più complesse, “scrittura morale e politica”.