Shutter Island: il doppio sogno di Scorsese

In concomitanza con la prima allucinazione da parte del protagonista, un’associazione mentale è sfociata nel doppio piano di specchi dell’ultimo capolavoro di Kubrik.
Alla seconda, il confronto si è fatto più labile, ma il gioco inconscio della scatola dei ricordi mi guidava nei ricettacoli della vita oltre la morte del Sesto Senso.
Pellicola pluripremiata e comunque degna di menzione.
Dalla terza in poi: l’architettura si è fatta più sbiadita, fino a diventare ombra delle precedenti.
Scorsese torna alla macchina da presa dopo quattro anni con il successo di The Departed.
Confermando, per l’ennesima volta come protagonista, faccia d’angelo di Caprio: novello De Niro, del glorioso Taxi Driver che fu. Siamo nel 54: anno in bilico su una guerra fredda che sta raggiungendo il suo apice. Portare un individuo alla soglia della follia non è un’impresa ardua.
Il clima di sospetto impregna la pellicola fin dalla prima scena. Il mal di mare del piano sequenza che dà inizio al film è il sinonimo dell’inquietudine di un mondo che si riaffaccia alla storia dopo la stasi della grande guerra.
La trama, apparentemente immediata ma sempre filtrata da flash-back sul passato, porta due investigatori un senior e il suo assistente ad indagare sulla scomparsa di una donna presso l’istituto Ashcliffe: manicomio criminale sorto al largo di Boston, denominato Shutter Island per i metodi repressivi adottati all’interno.
Tre gli edifici: uomini divisi da donne e i paria, gli intoccabili tenuti separati e all’interno di gabbie in quanto pericolosi per l’incolumità a terzi.
Unico contatto con la realtà, un traghetto: cordone ombelicale con la terra ferma, metafora della vita terrena. Ma come raccogliere indizi e testimonianze attendibili dall’omertoso personale dell’istituto e dai disturbati ospiti coatti dello stesso? Teddy e Chuck si troveranno presto a dover dubitare di ogni piccolo dettaglio che passerà loro davanti, proprio quando un devastante uragano impazzerà sulla zona, impedendo loro di lasciare l’isola e rendendo ancora più difficili le ricerche della fuggitiva.

Da qui in poi i piani si sovrappongono. Allucinazioni sulla ricostruzione della morte della ex-moglie. Campanello d’allarme nei punti, in cui lei apparirà al marito completamente bagnata. Una caccia al tesoro per rincorrere indizi costruiti in un’architettura che a tratti diventa al cardiopalma. Emblematica la scena di Teddy (Di Caprio) perso nel labirinto dell’edificio dei paria. Che diventa un girone infernale con la sua scala a chiocciola sdrucciolevole, i fantasmi del passato tangibilmente reali e la paura scaldata da una confezione di fiammiferi che si esaurisce lasciandolo nell’abisso del buio.
Nell’isola c’è chi spaccia la menzogna come verità per motivi ben precisi; c’è, invece, chi vive e interpreta una propria proiezione mentale come fosse vera.
Metafora della mente, l’isola è un luogo isolato e impervio. Un microcosmo su cui si innesta l’impianto di un thriller per rappresentare gli oscuri ricettacoli della psiche dove si annidano sogni e ambizioni ma anche traumi e violenza. Unica certezza è che niente è come sembra.
Ripeto: gli indizi ci sono ma culminano in un coup de theatre, che sovverte tutta l’architettura costruita fino ad allora, in cui il filo di Arianna ricompone e (sembra) portare all’uscita dal labirinto. Impressione subito mutata dall’ultima scena che rimette per il principio dell’eterno ritorno dell’uguale, tutto in discussione. Il finale è lasciato volutamente aperto da un’ultima, significativa, battuta, che lascerà allo spettatore decidere la verità sugli avvenimenti di Shutter Island: un luogo, oltre lo specchio, in cui tutto ciò che accade, in realtà, non esiste.

bea buozzi

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