Inviato in galera. Un giornalista in manette (Aliberti editore) è la drammatica e appassionata testimonianza di Mario Spezi – già da tempo indagato per le sue inchieste giornaliste sul Mostro di Firenze – sui ventitre giorni di detenzione nel carcere di Perugia (aprile 2006). Incredibile finale di una vicenda che l’autorevole “The Guardian” ha definito “Il più grave abuso contro la libertà di stampa perpetrato in Europa dalla fine della guerra”. È bene, ancora una volta, ribadire che Spezi è stato, poi, completamente scagionato dalla Cassazione.
Precedentemente lo scrittore fiorentino aveva scritto, insieme all’amico Douglas Preston, un thriller-verità, Dolci colline di Sangue (Sonzogno, marzo 2006), sul più celebre caso di serial killer verificatosi in Italia, ma forse nel mondo.
Ma non è di questi due libri e della vicenda – di cui giustamente si è discusso a lungo – che voglio ora parlare con Mario, ma di un aspetto della sua multiforme attività (cronista giudiziario, giornalista culturale, vignettista,…) messo spesso e volentieri in disparte dalla critica: quello di narratore.
Spezi è, infatti, autore di due noir (Il violinista verde, un insolito e raffinato noir psicologico e Il passo dell’orco). In più ha a suo attivo un discreto numero di racconti gialli.
Il violinista verde è del 1996, ed è il tuo primo romanzo. Ce ne parli?
Il Violinista mi ha fatto entrare di filato – e con molto piacere – nelle bande “nere” dei giallisti, ma io non avevo alcuna intenzione di scrivere un giallo. È la storia di un uomo che si autodistrugge con l’alcol, che è il serial killer di se stesso, fino a quando incontra un insolito detective: un frate francescano che nella sua cella fa psicoanalisi e che l’ aiuta a scoprire chi è il vero autore (simbolico) di quei delitti. Un’indagine, quindi, ma psicoanalitica, analoga però a un’indagine poliziesca. Per rendere meno antipatici un tema e una terminologia dei quali molti diffidano, ho inserito una speculare vicenda realmente poliziesca con un vero serial killer. E fu subito giallo.
Dimmi se sbaglio. Questo noir all’epoca è stato abbastanza trascurato dalla critica e, mi sembra di ricordare, anche dall’editore. È stato invece pubblicato con successo all’estero…
No, non sbagli. È che, credo, per l’ appunto quel libro era difficilmente etichettabile: noir o romanzo introspettivo? Il secondo poteva deludere i più accaniti lettori di gialli; il primo poteva far storcere il naso ai cultori della letteratura con la “L” maiuscola. All’ estero, dove si curano meno delle etichette e più dei contenuti, il Violinista in Francia è stato soffiato a Gallimard da Fleuve Noir; in Giappone è stato pubblicato quest’ anno da Fusoh-sha, un grande editore.
Poi, nel 2003, hai pubblicato Il passo dell’orco (edito da Hobby & Work), uno psycho thriller dove esplicitamente avevi come punto di riferimento fatti criminali realmente avvenuti in Italia.
L’ intenzione è stata quella di proseguire sulla strada del Violinista e di fare del frate francescano detective dell’ anima un personaggio seriale. Ho, quindi, “sottoposto” all’ attenzione di Fra Bartolomeo due casi, romanzescamente intrecciati, ma veri: la vicenda del cosiddetto Mostro di Foligno, il giovane Luigi Chiatti che uccise due bambini; e il caso del Mostro di Firenze. Due follie omicide viste dalla parte degli assassini, con empatia quindi, per poterle comprendere. E, con questo metodo, trovare magari anche un colpevole.
Nel risvolto editoriale di Il passo dell’orco è scritto “… sulla scorta di una citazione di Prévert (Questa storia è vera, perché l’ho appena inventata) – ogni riferimento a fatti realmente accaduti, dal caso Chiatti ai crimini del “Mostro di Firenze”, è da considerarsi… totalmente voluto.” Come intendi, allora, il rapporto tra verità e finzione letteraria?
Ma la verità è solo letteraria! La verità è sempre una costruzione. Quella che chiamiamo realtà molte volte è una finzione! Tu credi che un personaggio come Calderoli, che invita a un “Maiale day” contro i mussulmani, sia vero? O che il fotografo Corona sia reale?
Non sono paradossi, i miei, né provocazioni: intendo dire proprio che non so quanta verità ci sia in quei due figuri presi a caso. So, invece, che (se Benigni mi concede di citarli) Paolo e Francesca sono molto, molto veri.
A un livello più basso, posso dire che il romanzo, cambiando nomi e altre circostanze, può essere l’unico modo di dire la verità.
Infine i racconti, apparsi su riviste e antologie, premiati o segnalati in importanti premi, diversi inediti,… Ce ne parli?
Il racconto, come forma letteraria, mi piace molto. Forse perché sono un ansioso e ho la scriptura precox, difetto ereditato dal mestiere di giornalista. Ma con il racconto, se comincio la mattina, la sera sono già a poter scrivere “Fine”, almeno sotto la prima stesura.
E, poi, c’è che mi piace il ritmo di un racconto, abbastanza sincopato, un po’ jazz, se vuoi. Un romanzo ha, o dovrebbe avere, l’ andatura di una sinfonia.
In prospettiva, c’è speranza di vederli riuniti in volume?
A forza di piazzarne uno qui e uno là, ne ho collezionati parecchi. Ho scoperto, solo dopo averli scritti, che molti di essi hanno come protagoniste donne nel ruolo delle più diverse dark lady. Mi è venuta in mente un titolo che potrebbe essere “Dieci (o dodici, o quindici…) donne in nero, un signore annegato in ascensore e altri simili personaggi”. So, e non ho mai capito il perché, che gli editori italiani spesso non prendono neanche in considerazione i racconti, sostenendo che è un genere che “non va”. Ma il mio ultimo editore, Aliberti, sta valutando la possibilità di pubblicarli. Lo spero: riuniti in un solo volume, prenderebbero minor posto nella mia biblioteca.