Grazie al Noir in Festival abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Jonathan Lethem a Como per ritirare il Raymond Chandler Award e di fargli qualche domanda su Il detective selvaggio, La nave di Teseo
La giornalista Phoebe Siegler ingaggia il detective privato Charles Heist per ritrovare Arabella, la figlia di un’amica. Per quanto riguarda la coppia dei protagonisti, c’è un salvataggio, ma chi salva chi?
Sono tutti e due persi e ognuno cerca di salvare l’altro. Phoebe è una fuggitiva, cerca di scappare da sé stessa, da New York. Anche Heist è un fuggitivo, ma lo è in un modo diverso; si nasconde, resta immobile e non pensa che scappare – per andare da qualche altra parte – sia una buona idea.
Sono tutti e due perduti ma in modo diverso; lei in movimento, lui immobile.
Per certi versi Heist assomiglia a Bartleby lo scrivano di Melville e, come lui, condivide il “preferisco di no”.
La scomparsa di Arabella è una fuga dalla società? È un modo di salvarsi dal nostro tempo?
Arabella rappresenta il sogno di potere di andare verso una frontiera, di fuggire verso spazi aperti, verso una pagina bianca ancora da scrivere. Un luogo dove è possibile reinventarsi, lontano dalle cose già fatte e liberi dalle solite situazioni e gerarchie prestabilite.
Basta recarsi nel deserto del Mojave per salvarsi dalla politica, da Trump e tutti i problemi della società oppure anche tra Orsi e Conigli si ritrova lo stesso male?
Ovunque si vada, i problemi si ripresentano perché siamo sempre e comunque soggetti alla condizione umana. Trump non è un mostro, le nostre vite non sono perfette e tutto va bene. Trump è il sintomo di un problema nel quale tutti siamo coinvolti.
L’America è innocente e tutto dipende dall’elezione di Trump, oppure l’America è colpevole e il Presidente è solo la bandiera del cambiamento in atto?
Non accade soltanto in America, ma ovunque ci sia un confronto tra la vita e la volontà di controllo o il potere.
È un fenomeno diffuso che assume la forma di problemi razziali, il fatto di vedere gli immigrati come diversi e di considerarli nemici, le differenze che ci sono tra uomo e donna, così come tutte le diversità presenti nella società.
Sono polarizzazioni – una parte dinamica in questo confronto – e vengono intese come minacce al proprio io, al proprio sé.
Scrivere è avere a che fare con un mezzo neutro, codificato da grammatica e sintassi, oppure è qualcosa di vivo a cui dare forma?
Decisamente la seconda. La lingua è qualcosa che si evolve e contiene parte della nostra coscienza, quel materiale invisibile che noi usiamo per influenzare noi stessi; si tratta di un aggregato in continuo cambiamento che non obbedisce a delle regole e, con la scrittura, noi troviamo gli strumenti per guardarci allo specchio.
Si può considerare la scrittura come una forma di resistenza “ingaggiata” contro ciò che non funziona nella nostra società civile?
Idealmente sì. La scrittura, il linguaggio, la retorica e tutto quello che diciamo è lo stesso materiale con cui si esprime la politica.
Tutte queste attività usano gli stessi strumenti dell’ideologia ma possono servire per aprire una breccia al suo interno.
Brooklyn o New York sono affetti dalla sindrome di Tourette?
Spesso scrivo di New York come di una città isterica, nevrotica. Una città che fa uso di cocaina, schiava della caffeina, in perpetua agitazione che però è molto viva, in grado di creare una dipendenza nelle persone che ci vivono. Tutta questa frenesia è una forma di disorientamento, e questo essere sempre in agitazione mi sembra un’altra via per fuggire. Talvolta amo quest’atmosfera, ma penso che questo sia un altro modo per evadere dal presente, da se stessi.
MilanoNera ringrazia Jonathan Lethem e il Noir in Festival per la disponibilità