Il primo ricordo che ho del suo volto risale a quando avevo 5 anni. Nella stanza del Comunismo -come chiamai anni dopo lo studio di mio padre- dove il suo ritratto, fatto da mia madre con la china, era posto accanto a quello di Gramsci.
Sapevo soltanto, leggendone il nome, che quegli occhi pieni di luce si chiamavano Enrico. E facevo fatica a pronunciarne il cognome… Berlinguer erano quasi ostrogoto per una bimba di 5 anni!
Osservavo curiosa mio padre e altre persone che, di tanto in tanto, si riunivano di sera nel suo studio, parlando di Rivoluzione, di scala mobile e di Socialismo. Mi piaceva origliare di nascosto, con addosso una leggera piacevole paura che mia madre mi vedesse.
Passò del tempo, ne avevo 7 di anni.
Ogni domenica si andava dai miei nonni paterni a Paglieta, dove ritrovavo tutto il calore di una casa dalle fattezze povere, ma sempre ricolma di affetto e intensa umanità.
Quel giorno, pur non essendo domenica, andammo comunque nel paese di mio padre e, come sempre, mi venne incontro mio nonno, grande partigiano e grande uomo, abbracciandomi commosso nel vedermi.
Quel giorno conobbi Enrico Berlinguer, che accarezzò con dolcezza la mia testa e quella di mio cugino che, ancora oggi, dopo 40 anni, siede su una sedia a rotelle. Osservavo divertita mia nonna, mentre preparava la pasta e fagioli nell’immensa cucina della sua umile casa, mentre l’amico Enrico parlava con mio padre.
Da lì in poi il suo volto non fu più soltanto un ritratto con la china e il suo nome prese la forma di un’anima.
13 Giugno 1984.
Sentivo ancora l’odore delle candeline spente il giorno prima per il mio compleanno e, ancora assonnata, mi ritrovai su un pullman verso Roma, carico di gente, con accanto i miei nonni, i miei amati nonni, che guardavano tristi fuori dal finestrino.
A Roma, quel giorno c’era il mondo. Si celebrava la morte del Comunismo e si salutava inermi l’ultimo degli onesti, l’ultimo dei nobili d’animo.
Ricordo mio padre commosso e col pugno alzato fisso, mentre mio nonno urlava mafioso all’allora riccioluto De Michelis.
Io non sapevo che avremmo salutato per l’ultima volta Enrico.
Accanto a me mia nonna, che mi preparò un panino col pomodoro e, con occhi commossi, mi disse: “prendi, amore, mangia il panino che la giornata è lunga e tu sei ancora piccola!
Sono nata il 12 giugno del ’75, quando i raggi del sole iniziavano ad essere molto caldi e mia madre, inaspettatamente, entrò in coma.
A distanza di anni sono qui a cullarmi su questi ricordi, pensando al viso di mia madre che è sempre più bello, nonostante il tempo vi abbia inciso il proprio nome colorandolo con piccole grandi rughe.
A distanza di anni nessuno più parla di Comunismo, quasi se ne avesse timore e vergogna; seguiamo come pecore il flusso degli eventi, senza porci troppe domande, facendoci vivere dalla realtà e non avendo più voglia di gridare contro le ingiustizie del nostro tempo.
A distanza di anni ci cibiamo di reality, bevendo silicone, annusando indifferenti l’odore della menzogna, calpestando irriverenti quella che fu la strada della cultura.
La parola non ha più alcun valore etico.
Soltanto.
Semplicemente, uno strumento di manipolazione.
Delle nostre coscienze.
Dei nostri valori.
L’11 giugno del ‘75 mia madre rimase in piedi fino alle 2 di notte ad ascoltare Enrico Berlinguer che parlava in piazza, tra la gente. La sua gente. Quella che credette con lui tenacemente al compromesso storico.
Ancora oggi penso che quell’uomo abbia influenzato la mia vita sin da subito!
Ancora oggi ricordo quella sua carezza tra i miei ricci. Rossi. Ribelli. Come sono sempre stata io.
Come non ho mai smesso di essere.
PER NON DIMENTICARE.
ENRICO BERLINGUER
(Sassari, 25 maggio 1922 – Padova, 11 giugno 1984)