Wolfram Fleischhauer ha scritto dieci libri, tra romanzi storici e thriller, che sono tradotti in più di una dozzina di lingue. È in libreria con Il Bosco silenzioso, Emons Edizioni e sarà uno degli ospiti del Krimi Festival, il festival del giallo tedesco che si terrà a Roma il 15 giugno
Ciao Wolfram, ci racconti qualcosa di te?
Sono nato e cresciuto in Germania. A 16 anni ho passato un anno negli Stati Uniti e cosi è nata la voglia di scoprire altre culture e altre lingue. Ho studiato letteratura tedesca, inglese, latinoamericana ma soprattutto teoria della letteratura, materia che era molto di moda negli anni Ottanta, specialmente in California dove ho studiato il post-strutturalismo di Jacques Derrida e Paul De Man che un tempo mi affascinava molto. Dopo lo shock dello scandalo degli scritti del giovane Paul De Man non sopportavo più l’università che mi sembrava così ideologica e ipocrita tanto quanto qualsiasi altro business e ho preso la decisione di cercare un’altra strada per vivere la mia passione per la letteratura.
Come è nata l’idea del libro?
Avevo già scritto un romanzo sul tema del Nazismo (La serata rubata) e stavo in giro per un ciclo di conferenze nella regione dove è ambientato Il bosco silenzioso. Una mattina sul treno, stavo leggendo un libro sulle marcie della morte. Era così insopportabile che a volte dovevo smettere di leggere e guardavo fuori verso la bellissima campagna della baviera. Come era possibile che una natura tanto bella avesse potuto essere teatro di una tale discesa all’inferno? Come ha potuto un popolo così colto cadere così in basso? Così è nata l’idea di far “parlare” – attraverso la natura – questo silenzio onnipresente e doloroso nella storia tedesca che per noi, la generazione post-guerra, rimane come un rumore di fondo perenne nella nostra esistenza, qualcosa che non si può dimenticare.
Come riesci a unire la trama poliziesca alla Storia e alla riflessione etica e culturale?
Scrivo “gialli culturali”, cioè romanzi di suspense che non sono ambientati negli universi di poliziotti malinconici, soldi, potere, corruzione, serial killers, droghe o altre cose del genere. Solamente utilizzo il genere del giallo per parlare di altre cose come l’arte, la filosofia, la religione, la danza, o adesso la minaccia che l’uomo sapiens distrugga questo pianeta meraviglioso. Mi piacciono romanzi che combinano suspense con un vero contenuto. Per me già la storia dell’uomo e le contraddizioni della nostra esistenza sono un vero thriller. Ho avuto una sorte d’illuminazione quando leggevo Il nome della rosa di Eco. Che genio, pensavo. Un giallo sulla seconda poetica di Aristotele. E funziona!!! Tanti livelli di lettura. Eco mi ha aperto il cammino. Anche John Fowles. Tutti i maestri della letteratura postmoderna.
Sei appassionato di silvicoltura e appassionato come Anja dei meccanismi del mondo biologico?
No. Prima di scrivere Il bosco silenzioso non mi sono mai interessato particolarmente al terreno dei boschi. I miei interessi nascono sempre con la storia che sto immaginando e scoprire universi nascosti fa parte del piacere di scrivere. È sempre così. Immagino una storia, ma prima di scrivere una sola riga passo uno o due anni a fare ricerche. C’è una frase di Walter Benjamin che adoro: “L’occhio dorme fino a quando lo spirito (la mente) lo sveglia con una domanda”. (Das Auge schläft bis es der Geist mit einer Frage weckt). Questo è il mio percorso. Raccontare una storia è un modo di capire il mondo. La facoltà narrativa per me è un organo sensoriale, un modo di combinare testa e cuore per arrivare a un vero intendimento capace di colpire l’anima di una persona, prima me stesso, poi il lettore.
Mi ha colpito una frase del libro: non esistono paesaggi brutti, ma solo persone tristi…
Si, una bellissima frase di Simone Veil. Che dignità di pensiero! Che coraggio e onestà.
Un’altra cosa che mi ha colpito del libro è la lettura alternativa della favola di Hansel e Gretel e la successiva definizione di “metodo Hansel e Gretel”, ce lo vuoi spiegare?
Questa interpretazione immaginata dal gran marxista Iring Fetcher mi ha colpito moltissimo perché noi tedeschi abbiamo tutti una tendenza pericolosissima al romanticismo. A volte penso che la modernità, la civiltà infondo faccia paura ai tedeschi. Preferiamo ritornare allo stato naturale, “abbracciare gli alberi”! Questa è la schizofrenia tedesca: siamo un popolo di ingegneri e tecnici che cercano la vita semplice nella foresta. Ma la regressione allo stato naturale comporta dei rischi perché può facilmente prendere la forma di una regressione al brutto, alla barbarità.
Sono convinto che lì si trovi la chiave per capire veramente la catastrofe del Nazismo. Noi tedeschi infondo abbiamo un problema con la civiltà. Vogliamo “cultura”, che è altra cosa, più forte, più irrazionale e quindi anche più pericolosa. Bisogna leggere Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann o il libro di Heinrich Heine sul romanticismo tedesco. Sono testi chiave per capire questa duplicità. Con questa prospettiva in mente, si può facilmente leggere Hansel und Gretel come la distorsione di una pogrom-story.
Citi anche una frase di Goethe: “Un tedesco messo davanti alla scelta tra ordine e ingiustizia sceglie sempre l’ingiustizia, perché il disordine porta al caos”. Credi valga ancora questa affermazione?
Si. Assolutamente. Fa parte del nostro DNA culturale.
Il tuo libro scava in una ferita profonda della Germania, credi che quel periodo e le sue atrocità siano state realmente comprese a fondo?
No. Non credo che possiamo veramente arrivare infondo a tutto questo perché sarebbe come arrivare al fondo di noi stessi. Non credo che possiamo mai conoscerci senza gli altri, lo sguardo dell’altro. E questo è vero per tutti, Italiani, Francesi, Cinesi… Per questo bisogna continuare a scavare, raccontare, comunicare.
Nel libro si dice che quel periodo è stato per anni il terrore di molte persone, perché lo scavare nel passato avrebbe potuto troncare molte carriere politiche. Spaventa ancora oggi? La visita di Pertini al lager che citi nel libro, perché faceva così paura?
Durante le ricerche ho trovato giornali dell’epoca e sono rimasto senza parole per la violenza della polemica. L’idea che Strauss accompagnasse Pertini a Flossenbürg causava un’agitazione incredibile. Per molta gente fu un insulto, una disgrazia. In Italia era ancora visto come un traditore e in ogni caso nessuno voleva parlare di quello che era successo a Flossenbürg. Prima di arrivare li, anch’io non avevo mai sentito parlare di questo campo che era gigantesco! E tutto ben visibile, alla luce del sole. Non fu un campo nascosto ma un inferno nel centro del villaggio, a due passi dalla chiesa e dalla scuola locale dove i contadini potevano trovare lavoratori. La complicità della popolazione locale fu tanto grande che non mi sorprende che dopo nessuno volesse più guardarsi allo specchio.
Nel libri si dice anche “la storia secondo cui la Germania avrebbe accolto la caduta del regime come una liberazione e che avrebbe collaborato è solo una leggenda” come anche il fatto che i tedeschi non sapessero dell’esistenza dei lager. È veramente così?
Il Lager di Flossenbürg era completamente integrato nella vita quotidiana del villaggio. I prigionieri erano costretti a lavorare per i contadini nell’epoca della raccolta. Sono state ritrovate molte lettere in questo senso, scritte al comandante del lager. Quando oggi uno va visitare il memoriale di Flossenbürg, ciò che colpisce di più è la vicinanza di questo “anus mundi” al villaggio – cento, duecento metri!!! E dopo la liberazione gli abitanti non si fecero alcun scrupolo a costruire case con vista sull’ ex-campo di morte. Non voglio generalizzare, c’erano molte persone che odiavano il regime di Hitler. Ma la maggioranza credeva veramente che lui fosse il salvatore. Almeno al principio. E non c’era molta compassione per le vittime del regime.
Credi che alla fine della guerra, la contrapposizione che si creò tra est e ovest abbia in qualche modo alleggerito la condanna dei paesi occidentali almeno verso la BRD?
Non lo so. Il fatto che la Germania occidentale abbia preso il cammino verso la democrazia e contro il totalitarismo era imposta da fuori, dai vincitori. Lo stesso è successo con la parte comunista, non c’è stata nessuna scelta. La Germania occidentale ha avuto la fortuna di essere indispensabile da un punto di vista geopolitico, per il blocco occidentale anti-comunista. Ma non era per niente meritato. E né le persone né la mentalità erano veramente cambiate. Da qui nasce la frustrazione della generazione degli anni Sessanta – dappertutto c’erano giudici ex-nazi, capi industriali ex-nazi, politici ex-nazi. Ci sono volute ben due generazioni per costruire una società veramente nuova. Ma il grande test sul fatto che tutto ciò resista al tempo, deve ancora essere superato.
Quanto ha pagato la generazione successiva al periodo nazista?
Per me è difficile parlare per gli altri. Non sono un sociologo. Ma certo è che il mio rapporto con il mio Paese, la mia cultura, è molto contrastato, e non sono l’unico. Credo che non sia un caso che ho passato quasi metà della mia vita all’estero. È vero che non mi sento veramente in casa a casa. La cultura tedesca si è castrata con Hitler. Dal tempo di Mendelsson, di Heine, la nostra cultura è sempre stata una simbiosi dei tedeschi con gli ebrei. Non sono per niente religioso ma ho sempre sentito una certa affinità con la cultura ebraica, in senso culturale, civile. La mia vera patria sono i libri. Mi sono sempre sentito marginale, incapace di sposarmi al concetto di una nazione, un’identità fissa. Non credo in nessun salvatore ma nella responsabilità dell’uomo, nella necessità assoluta dell’educazione, nel senso del lavoro, nella forza liberatoria della ragione. Non credo nella redenzione, ma nell’emancipazione dell’uomo dallo stato “naturale” e “animale” attraverso la coscienza.
Cosa si può fare per tenere viva la memoria e scongiurare nuove atrocità?
Un sacco di cose. Ma non ho una ricetta universale. Che ciascuno faccia la sua parte. Io sono un narratore. Per non ripetere il passato, bisogna scrivere una narrativa sociale diversa: umana, decente, cosciente. Spero di scrivere alcune righe valide di questa nuova narrativa con i miei romanzi.
Anja si chiede se la verità vada perseguita a qualsiasi prezzo. La tua risposta?
È giusto la domanda alla fine del libro. E un buon libro secondo me non dà risposte a domande ma ma arriva a renderle indispensabili per il lettore.
Io personalmente credo che niente valga qualsiasi prezzo. Tutto dipende della situazione – non c’è una verità definitiva. Ma si credo (o spero) che con il tempo possiamo essere capaci di trovare il giusto prezzo alle cose. Perché altrimenti, non c’è speranza.
MilanoNera ringrazia Wolfram Fleischhauer per la disponibilità
Qui la nostra recensione de Il bosco silenzioso