Al FEFF 12 la parte del leone l’hanno fatta sicuramente Cina (e Taiwan), Hong Kong e Giappone.
Importanti e preziosi contributi sono però giunti anche dalla Corea del Sud (in maniera più cospicua, con una presenza, in termini numerici, pari al Giappone), da Thailandia, Vietnam, Indonesia e Filippine.
COREA DEL SUD
Dalla Corea del Sud proviene, innanzitutto, il film vincitore degli Audience Award 2010, “Castaway on the moon”, di Lee Hey-jun, che racconta, in chiave romantica ed emozionante, l’incontro tra due solitudini. La storia è stata molto amata dal pubblico, tant’è che si è aggiudicata anche il primo posto ai Black Dragon Audience Award.
Divertentissimo e davvero gradevole è “Running Turtle” di Lee Yeon-woo, un noir, si potrebbe dire, alla maniera dei fratelli Coen (quelli de “Il grande Lebowsky”), record di incassi 2009 in patria. Ci si appassiona qui alle tragicomiche vicende di un mediocre poliziotto, Cho Phil-sung, che non disdegna di scommettere ed accordarsi con i balordi della sua cittadina dai quali dovrebbe, per lo meno, tenersi lontano. Solo quando gli viene rubata la vincita di una forte scommessa (motivo per cui la moglie vuole cacciarlo di casa), Cho si metterà alle calcagna di un pericoloso ricercato – continuando, peraltro, come prima, a muoversi goffamente e senza criterio – generando un sacco di noie all’equivalente coreana dell’FBI. La storia si snoda piacevolmente regalando azione, risate e suspense, fino alla resa dei conti finale.
Abbiamo, ancora, parzialmente apprezzato ad Udine l’ horror “Possessed” di Lee Jong-ju, cimentatosi con le problematiche derivanti dai vari fanatismi religiosi, come ha potuto ben spiegarci alla conferenza stampa. Se gli spunti suggestivi c’erano tutti, d’altra parte, il dipanarsi e la soluzione della trama mi sono parsi un po’ sfuocati.
Altro blockbuster coreano pervenuto al FEFF è “Woochi”, di Choi Dong-hoon. Se amate i film di arti marziali e vi è piaciuto “I visitatori” con Jean Reno, potreste apprezzare anche questa umoristica variazione sul tema della lotta tra il bene e il male che si svolge in parte nei tempi antichi e in parte nel 2009, nella luminosa e tecnologica metropoli di Seoul, che fa da sfondo a spettacolari combattimenti, densi di effetti speciali, fra i maestri custodi della pace e gli infernali goblin.
THAILANDIA
Mi sono emozionata a seguire le vicende delle due giovani protagoniste di “Dear Galileo”, le brillanti Noon e Cherry, che, prima di entrare definitivamente nel mondo adulto, decidono di intraprendere un viaggio in Europa tentando di vivere a Londra, a Parigi e a Venezia (compariranno anche Milano e Pisa). Con grande leggerezza il regista, Nithiwat Tharatorn – presente al FEFF – descrive come sia sempre dura ed esposta la vita di uno straniero che cerchi di mantenersi lavorando, tratteggiando allo stesso tempo, in modo del tutto convincente, l’amicizia tra le due ragazze.
Spero proprio, poi, che le magie della distribuzione permettano, in qualche modo (potremmo accontentarci dell’importazione con sottotitoli in lingua inglese), la visione di “Slice”, del regista Kongiat Khomisiri. Si tratta di un horror in cui dalla sfera onirica, che produce strane visioni, gradualmente, si viene condotti a prendere coscienza del vero orrore che proviene dal mondo reale, ossia una società violenta e spietata dove non si risparmiano i più indifesi, come i bambini (anzi, i primi ad essere colpiti senza pietà): molti di loro, per sopravvivere, sono lucidamente costretti ad adattarsi anche nelle maniere più abnormi, anche diventando dei mostri.
VIETNAM
Mi sono commossa tantissimo (a fiumi) con “The legend is alive”, di Luu Huynh.
Come sottolineato nella scheda dedicata al film dal FEFF, a cura di Paolo Bertolin, il film prende abilmente le mosse dal trauma mai sopito della Guerra del Vietnam. Protagonista è un orfano che, a causa dell’esposizione all’Agente Arancio (ovvero una potente arma chimica utilizzata dagli americani contro i viet cong e che ancora oggi, dopo decenni, provoca malformazioni), nasce ritardato e con delle imperfezioni fisiche: perciò viene abbandonato dalla madre, che lo ripone con cura in una scatola destinata a contenere aiuti umanitari statunitensi.
Il neonato viene accolto dalla protettiva Long, maestra di arti marziali, che lo chiama, in lingua vietnamita, “Bruce Lee” e lo cresce con amore, cercando di allenarne e svilupparne i punti di forza e facendone un campione di kung-fu nonostante i suoi handicap, affinché possa difendersi e far fronte alle difficoltà della vita anche quando lei non ci sarà più.
Con l’intento di fondare e sostenere l’autostima del bimbo in se stesso, a dispetto del suo ritardo e dell’asprezza del mondo esterno, Long fa crescere il piccolo facendogli credere che il padre è proprio il grande Bruce Lee, che tuttora, vive in America.
Alla morte di Long, il nostro Bruce, vuole portare le ceneri della madre da quello che lui crede essere il proprio padre, in America, anche se non ha la più pallida idea di dove si trovi. Si mette comunque in marcia.
Sulla strada verso l’America immaginata, molta gente cercherà di approfittarsi di lui e di derubarlo, ma l’anima candida “Bruce” reagirà, alla fine, con impressionanti combattimenti e acrobazie, soltanto per difendere una ragazza incontrata in viaggio, caduta vittima di una rete di criminali che fa traffico di prostitute e di esseri umani.
Sarei felice di poterlo rivedere ancora (e farmi ancora qualche piantino).
FILIPPINE
Allegra è la commedia “Kimmy Dora”, della regista Joyce Bernal, giocata su una serie di equivoci e di disavventure che ruotano intorno a due gemelle indistinguibili tra loro, laddove, però, l’una Kimmy, è brillante ma dura, spietata e aggressiva (e si esprime quasi solo in inglese), l’altra, Dora, è invece buona con tutti anche se assolutamente naif (e parla in filippino).
Davvero molto gradevole è “The arrival” di Erik Matti, presente ad Udine, in cui si racconta di Leo, un diligente contabile di Manila dalla vita assolutamente monotona, che decide di seguire, letteralmente, il proprio sogno. Viene visitato, infatti, spesso, dalla visione di una casa da cui esce una bella donna che si dirige verso di lui per baciarlo. Il sogno si ripete fino a quando Leo non vede una cartolina dal suo barbiere, riconoscendo la casa immaginata: decide allora di lasciare tutto e di recarsi in questo posto, per cercare la sua felicità. Troverà tutto ciò che ha sognato? Sicuramente, il racconto funziona come quelle “storie che fanno bene”.
INDONESIA
Di nuovo parliamo dell’inseguimento dei propri sogni.
L’Indonesia, infatti, con il regista Riri Riza, ci ha regalato il terzo classificato agli Audience Award 2010 del FEFF, il meraviglioso “The dreamer”, sequel del più grande successo indonesiano dell’ultimo decennio, “Rainbow Troops”.
Il grande “sognatore consapevole”, Arai, spinge, sin dall’infanzia, il fratello adottivo/cugino Ikal e l’amico Jimbron (adorato, pure, come un fratello) a studiare e a lavorare per conquistare il proprio posto nel mondo, senza smettere mai di osare di credere che anche loro, seppur poverissimi ragazzini di un villaggio sperduto dell’Indonesia, ben possono aspirare di giungere, un giorno, a studiare alla Sorbona.
Il film racconta i giganteschi sforzi fatti dai nostri tre piccoli grandi eroi per seguire i propri sogni, continuando sempre a volersi bene e a sostenersi l’uno con l’altro. Il regista ci accompagna nell’esplorazione delle loro fantasie adolescenziali, del loro percorso di formazione e di crescita. Ci fa condividere le emozioni associate alle loro difficoltà derivanti, prima di tutto, dall’abitare in un contesto di estrema povertà.
Il racconto ci dice: “non smettere mai di credere in te, qualunque sia la condizione in cui ti trovi ora”.
Riri Riza riesce magicamente a venirci a prendere uno per uno in sala per trascinarci dentro la storia: e noi, catapultati nelle vite di Arai, Ikal e Jimbron ci troviamo a piangere, sognare e sperare insieme a loro.
Immaginavo e speravo che vincesse proprio “The dreamer”.