a cura di Matteo B Bianchi e Giorgio Vasta
Dizionario affettivo della lingua italiana
fandango
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Circa un anno e mezzo fa, la rivista di narrativa on line ‘tina, curata dallo scrittore Matteo B. Bianchi, ha lanciato un’iniziativa rivolta agli amici scrittori: ha chiesto loro di scegliere la propria parola preferita della lingua italiana e spiegarne il perché. A quell’appello hanno risposto una trentina di autori, i cui contributi sono stati raccolti in un numero speciale e pubblicato in Rete nell’estate del 2007. L’interesse e la curiosità suscitati dal progetto sono stati tali che Giorgio Vasta della scuola Holden di Torino ha proposto a B. Bianchi di trasformare l’iniziativa in un libro vero e proprio con il coinvolgimento del maggior numero possibile di autori italiani.
Dopo un lavoro di raccolta durato mesi, oggi il volume esce in libreria, pubblicato dall’editore Fandango, col titolo “Dizionario Affettivo della Lingua Italiana” (252 pagine, 10 euro).
Il libro riunisce ben 330 voci firmate dai principali narratori e poeti del nostro paese, diventando così il primo dizionario italiano scritto dagli scrittori stessi e presentando una vasta gamma di registri espressivi, dalle definizioni epigrammatiche alle lunghe riflessioni, dai toni poetici a quelli ironici, dalle analisi linguistiche ai ricordi strettamente personali.
Fra gli autori presenti, alcuni dei nomi più celebri della nostra letteratura, come Andrea Camilleri, Sandro Veronesi, Barbara Alberti, Erri De Luca, Alberto Arbasino, Giorgio Faletti, Valeria Parrella, Paolo Giordano, Melissa P, Giancarlo De Cataldo, Paolo Nori, Tiziano Scarpa, Camilla Baresani, Enrico Brizzi, Tullio Avoledo, Lidia Ravera, Domenico Starnone, Giuseppe Genna, Michele Serra, Marcello Fois, Diego De Silva e tantissimi altri.
In anteprima per Milano Nera abbiamo scelto alcune definizioni scritte da alcuni noti giallisti. Eccole.
AURORA
Henry James diceva che nella lingua inglese non c’è espressione più bella di summer morning, mattino d’estate; per me, in quella italiana, niente batte la dolce parola aurora. Ha un suono sensuale e austero al tempo stesso: la bocca indugia socchiusa nel pronunciarla, le labbra sporgono; la lingua, i denti, il palato lasciano passare l’aria senza sfiorarsi. È una parola latina, ma i latini stessi si sbagliavano sul suo significato. Pensavano venisse da aurum, oro, e volesse dire che è l’ora del giorno in cui il cielo prende il colore dell’oro. Più preciso e poetico, Omero la chiamava aurora dalle dita di rosa.
L’aurora non è l’alba: è il presentimento dell’alba. Il momento in cui il sole, ancora invisibile sotto l’orizzonte, colora di rosa una notte che già non è più notte, senza che il giorno sia ancora giorno. (Raul Montanari)
GOMMAPANE
Sarà che quando mi viene chiesto di pensare a una parola a cui sono emotivamente legato è dicembre, periodo di passaggio tra un anno e l’altro, momento di ricordi e nostalgie, ma quella che mi viene in mente per prima è una parola che probabilmente non uso da decenni: gommapane. Che già fa bene allo spirito per il suono e la composizione: due parole buone, morbide, profumate – il pane e la gomma – un po’ come burrocacao.
Pensando alla gommapane, riaffiorano ricordi lontani: dita che rigirano sotto il banco una pallottolina bianca e profumata, che piano piano perde l’odore e diventa grigia ma resta comunque morbida, piacevole da toccare, da premere, da modellare. Una specie di mantra, di soffice rosario che favorisce la concentrazione ma anche il rilassamento, la pulizia del pensiero. Di cosa è fatta la gommapane, e a cosa serviva veramente? Forse a cancellare i tratti a matita. Ma per quello non bastava una normale gomma da cancellare? (ce n’erano di bellissime, morbide e profumate, che si scioglievano sul foglio, mentre quelle a due colori, per matita e biro, erano troppo dure e avevano un sentore chimico, sgradevole). Ma se per cancellare c’erano le gomme, per giocare c’era il pongo e per modellare c’era il Dash, come riuscivo a convincere i miei genitori, quando mi accompagnavano in cartoleria (luogo meraviglioso per me, da bambino e anche ora, come la libreria e la pasticceria), a comprarmi una confezione di gommapane? Ricordo ancora il brivido nello strappare il rivestimento di cellophane e nel violare per la prima volta la compattezza candida e ancora geometricamente perfetta della gommapane appena comprata.
È un gesto così intimo, così profondamente legato all’infanzia – polpastrelli che distrattamente, ma allo stesso tempo con grande perizia, rigirano e impastano materia morbida: il lobo di un orecchio, un minuscolo gomitolo di tessuto, una caccola estratta da una narice. Spesso mi capita ancora – per esempio a tavola, durante certe interminabili discussioni da dopo cena – di cercare qualcosa con cui giocherellare. Gommapane non ne ho (ne ho rinvenuto un avanzo sul fondo di un’astuccio, tempo fa, ma era secca e indurita), quindi le mie dita s’impadriniscono di quel che trovano: il lembo strappato di un tovagliolo di carta, un pezzetto di sughero, una pallina di mollica. E ancora si riavvia, automaticamente, quel gesto che viene da lontano, e che per un periodo della mia vita ha avuto come complice ideale quella materia misteriosa e affascinante: la gommapane. (Giampiero Rigosi)
GIALLO
Parola usata in tempi antichi per definire, oltre al colore, anche uno specifico tipo di letteratura d’evasione, basato sull’indagine poliziesca e l’omicidio. Ora ripudiata in nome di un più blasonato e misterioso “noir”, quando non addirittura negata e sostituita da giri di frase tipo: “letteratura d’inchiesta”, o “indagine sociologica sul presente”. Rimane la sua permanenza per la definizione di manifestazioni folcloristiche, generalmente patrocinate da aziende vinicole locali e salumieri, e di club di vegliardi volti alla difesa del Giallo Classico, contrapposto a quello Moderno, considerato troppo volgare e violento. (Sandrone Dazieri)
NOIR
E’ la mia parola innanzitutto perché mi ricorda la Francia, una sorta di seconda patria. Un luogo dell’anima dove ho vissuto, dove ritorno appena posso, e dove, ça va sans dire, si bacia alla francese. Certo, lo si può fare ovunque ma a Parigi davanti a Notre Dame, ad esempio, ha un sapore tutto diverso. Comunque, anche se sarebbe un’ottima ragione, non è per questo che l’ho scelta. Non solo, perlomeno.
In Italia, quando si parla di letteratura si tende spesso ad identificare il termine noir come sinonimo di giallo. I puristi, che troverete facilmente alla presentazione di un qualsiasi libro di questo tipo, vi diranno che non è così e saranno lieti di dispensarvi una noiosissima lectio magistralis su questa annosa questione di lana caprina.
Per quanto mi riguarda, non intendo entrare nel dibattito. Non ne sono all’altezza del resto; per me i libri si dividono soltanto in due tipi: quelli belli e gli altri. Sono però uno che ama la storia e quindi, se proprio devo schierarmi, vado alle origini, agli anni Venti quando gli stessi romanzi che da noi erano pubblicati nella serie dei Gialli Mondadori con la copertina gialla, oltralpe uscivano nella Série Noire dell’editore Gallimard con la copertina nera. A voi l’incombenza di trarne le opportune conclusioni.
Con gli anni il termine si è evoluto e noir, oltre che un colore che sta bene su tutto, è diventato anche l’identificativo di un genere letterario. E qui confesso il mio debito affettivo: questo colore, pronunciato alla francese ma inteso (per quanto mi concerne) come sinonimo di giallo tout court, rappresenta la mia letteratura. Una passione che mi ha rapito come lettore prima, e come scrittore poi; una parola che evoca il piacere di raccontare il lato oscuro dell’uomo e della sua anima. (Paolo Roversi)
OSTIA
Ostia è il corpo di Cristo dopo la transustanziazione, uno dei maggiori dogmi della Chiesa cattolica: il corpo di Cristo fatto pane (la sacralità diventa carne). L’ostia che i fedeli ricevono durante la comunione è quindi il simbolo del pane, alimento essenziale e sacro, alimento più importante di quel che solitamente si crede, poiché per farlo sono stati necessari i quattro elementi: Aria, Acqua, Terra, Fuoco. Quanto mi porta lontano la parola Ostia: dal romanzo che ho finito da poco di scrivere, ispirato ai simbolismi religiosi, al silenzio carico di incenso e fiamme di candele d’una chiesa, a uno dei più bei posti visitati nella mia vita (Ostia antica), all’esclamazione che indica stupore, su qualcosa di grande e talmente immenso che per definirlo ci vuole una parola corta corta ma di enorme significato.
(Alda Teodorani)