Non c’è sbavatura nella rovina di una finestra in aggetto a Istanbul, né protesta abbastanza incisiva contro la cementificazione di Antalya. Il nodo del Pkk – il Partito dei lavoratori del Kurdistan – contrapposto allo stato turco negli scenari militari di Hakkari e Sirnak, al confine con il Nord Iraq, si aggiunge alla questione dolente di Cipro divisa in due dalla storia e dagli usi politici riflessi sui genocidi armeno e curdo.
Entrambi sono ferite aperte e chiuse dai protocolli come dal disinteresse, ma non impediscono di cogliere la «sensibilità per il verde» di Gaziantep, di immergersi nella fierezza ottomana di Smirne, ancora aperta al mondo nonostante la guerra greco-turca del ‘22.
Tra queste tracce esplodono i riconoscimenti mancati alle minoranze e il dibattuto ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Da subito, con loro, si fa largo un viaggio di nomi e luoghi abitati per la prima volta da una giornalista che, in poco più di quattro anni, va a visitarli senza massime di fortuna apprese soltanto per dovere di cronaca.
L’umore che guida il suo scritto itinerante è di un’esperienza giovane nel senso più protettivo del dovere di indagine, vale a dire puro e restituito con franchezza, dettaglio di geografie e nature delle popolazioni da cui tutto proviene.
Gli occhi di Marta Ottaviani sciolgono dubbi, colmano lacune perenni cui l’Europa risponde con facili assegnazioni, negandosi a ragioni di bellezza e superiorità diplomatica comodamente ignorate anche dal silenzio dei media. Le regioni turche dai confini slabbrati scacciano certo tutto quanto altrove prosegue nell’ordinarietà più rassicurante: Istanbul guida il carro alla testa di città come la spirituale Bursa e all’opposto c’è Ankara, architettura di una capitale che annulla il coinvolgimento emotivo e si muove nella perenne contrapposizione tra filo-islamismo e filo-nazionalismo, nell’emendamento dell’articolo 301 contro l’offesa dell’identità turca e nel pericolo dell’organizzazione complessa e di matrice ultranazionalista di Ergenekon.
Ottaviani sa accompagnare il lettore tra le falde di questo terreno più volte scavato da terrorismi e golpe che fortunatamente non zittiscono l’invadenza piacevole degli odori della cucina, dell’uso del cay, il tè nero offerto con due zollette di zucchero o della prelibatezza dello yogurt dolce a Kanlica. All’accoglienza ospitale concessa a un’italiana si affianca poi un’altra isola di dolore dopo Cipro e il fronte armeno di Kars e Igdir, dopo l’argomento panturco e la minoranza alevita: quella femminile dei delitti d’onore di Batman che mascherano suicidi e violenze domestiche.
Ma ciò che davvero modella il dibattito, come la misura tra la sudditanza femminile e la sua convivenza con l’emancipazione, è l’ascolto mai giudice di un’autrice nell’intimità di un popolo. Dopo un “primo impatto” con Cose da turchi, già forte di ritratti in cui provava a fare ordine, ora il suo passo avanza in quelle città dove sempre le parole sono uomini e si scopre una vicinanza di pensiero oltre la legittimità dei conflitti.